(opera di Rocco Normanno, Salomè, 2008)
Mattino
– Credi che se fosse stato solo sesso non ce ne saremmo accorti? Cioè, voglio dire, non ti saresti stancato di prendermi in tutti i modi possibili e poi ricominciare e ricominciare ancora? –
– No, non credo. – rispose lui quasi spavaldo.
– Non credi che te ne saresti accorto o non credi che sia così? –
– Non potremmo scopare e basta come tutte le altre volte? –
– No, non credo. – replicò lei quasi decisa.
– Ok, allora vado via. –
– Se credi – rispose lei – ma ti ricordo che siamo a casa tua. – E intanto, prona, dondolava le gambe ai bordi del letto, esibendo la sua nudità disinvolta, mascherata appena da un paio di autoreggenti, l’ultimo retaggio di una svestizione sacrale quanto repentina.
– Bene. Allora vai via tu. – replicò lui fingendosi risoluto.
– Ho fame. Mangio qualcosa, poi vado. Posso? – chiese lei con aria innocente.
– Serviti pure. – La vide scivolare dal letto con i seni che ondeggiavano come due grosse campane e si soffermò un istante su quell’eccitante scampanare. Poi la osservò poggiare le mani, con quelle sue unghie sempre laccate di rosso, sul letto disfatto per sollevarsi sulle gambe dritte come tronchi d’albero. Apparve il suo bacino rotondo ed infinito dove, dopo l’appagamento dei suoi lirici orgasmi, si abbandonava in sonni profondi e senza sogni.
– Qualcosa non va? – chiese lei sentendosi osservata.
– Nulla che ti riguardi. – replicò lui avvicinandosi alla poltrona e fingendo di cercare i pantaloni nella semioscurità.
– Se lo dici tu! – Varcò l’uscio della camera da letto e la luce azzurrata delle vetrate del salotto investì il morbido biancore del suo corpo, come una statua di marmo in una fontana avvolta dalla cupola iridescente del cielo.
Tornò qualche minuto dopo con un piccolo vassoio. Un paio di crostini con della crema al formaggio e delle verdure. Si sdraiò su un fianco. Il vassoio sul letto.
– Sai che odio trovare le briciole tra le lenzuola. – disse lui stizzito.
– Sì, lo so. Perché ti vesti? Dai mangia qualcosa con me. Fammi compagnia. –
– Non ho fame e poi devo scappare al lavoro. – Si sistemò la cravatta e afferrò la giacca dall’indossatore. Un ultimo sguardo allo specchio.
– Spero di non trovarti qui al mio ritorno o, se devo trovarti, spero sia con altre intenzioni. Ti saluto. –
Pochi secondi dopo la porta dell’ingresso si chiuse con un suono sordo e ferroso. L’ultima cosa che lei sentì furono i suoi passi giù per le scale. Poi più nulla.
Si lasciò cadere da un lato del letto. Finì sul vassoio. Un ricciolo di crema al formaggio rimase appiccicato ad un capezzolo. Ne raccolse un po’ con un dito. Lo portò alle labbra e rise, abbandonandosi, mentre la luce del mattino si faceva strada sempre più insistentemente tra le fessure degli scuri socchiusi.
Pomeriggio
Dalla vasca esalava un odore di mela verde e cannella. Amava mischiare profumi diversi, vedere la densità perlacea dei bagnoschiuma affondare pesantemente dentro la trasparenza dell’acqua e poi espandersi a seguito del rimestio delicato delle dita. Dalla schiuma si sprigionavano pensieri e sogni. Chiudeva gli occhi e sognava o, semplicemente, pensava.
Quel pomeriggio non pensò a niente. Il capo poggiato al bordo della vasca. Un vuoto silenzioso ed intimo. Nemmeno di attesa.
Riaprì gli occhi e nello specchio vide apparire l’immagine di lui nel suo elegante abito blu. Non si scompose. Anzi, scivolò ancora più a fondo nella vasca sorridendo.
– Non dovevi andar via? –
– Non esattamente. Tu mi avevi detto di andare via. – rispose lei sarcastica.
– E non lo hai fatto. – disse lui sciogliendosi il nodo della cravatta.
Si svestì lentamente, quasi volesse richiamare lo sguardo di lei su ogni parte del suo corpo. Prima le larghe spalle, poi il torace glabro sul quale ancora si affacciava la cicatrice dell’ultimo incidente in moto, finché lei non distolse lo sguardo, quasi rapita dal tramonto che rosseggiava sulle colline, oltre il riquadro della finestra.
Quando le gambe di lui sfiorarono le sue si ridestò da quegl’attimi di torpore. Il contatto dei corpi la richiamò alla realtà della fisicità e dei sensi. Lui le stava seduto davanti. Gambe divaricate. Sguardo provocatorio. Nessun cenno di tenerezza.
– Non mi hai ancora detto perché sei rimasta. – esordì quando si accorse che il suo silenzio non suscitava alcuna reazione. – Allora? – rimarcò.
– Non lo so. – rispose lei distratta.
Rimasero così, avvolti dal tepore liquido di quel pomeriggio mentre l’odore di mela verde e cannella, che si era liberato dalla schiuma, si disperdeva sempre più e le piccole gocce, sullo specchio e sui vetri della finestra, ricadevano in rivoli sottili e perfetti.
Sera
Bastò uno sfiorarsi, quasi involontario, perché, anche quella sera, ricominciassero a desiderarsi, semmai avessero smesso per qualche istante. È così, mentre lei gli passò dietro, nello spazio ristretto tra il tavolo e i fornelli, sentì la curva del suo bacino incastrarsi perfettamente col suo fondoschiena e abbandonò quell’abile spadellare che fino ad allora sembrava dover diventare la sua unica occupazione per quella sera.
La prese ancora una volta lì, piegata sul tavolo, con passione e con rabbia, come piaceva a lei . A lei, che non aveva mai capito se quella rabbia fosse più sua che sua. Lei che non voleva avere pensieri quando lui la scopava o voleva che lui la scopasse per non avere pensieri?
I loro sospiri e i loro gemiti s’inseguirono ancora con quella precisione meccanica che sapeva d’ingranaggio perfetto, fino al completamento nell’orgasmo, il rintocco di mezzogiorno del loro orologio del sesso, che suonava puntuale, ogni giorno, da nove anni a questa parte.
Quindi dovremo continuare così, fino a quando gli organi genitali ci funzioneranno?
Il silenzio del post appagamento fu interrotto. Lui, che aveva ripreso a spadellare come se niente fosse accaduto, si girò di scatto e la osservò, con gli occhi spalancati, come se la vedesse per la prima volta.
Ma non erano state quelle parole, che aveva pronunciato ad alta voce solo nella sua testa, a richiamare l’attenzione di lui. Il suo girarsi fu l’istinto di chi, ferito mortalmente, rivolge il suo ultimo sguardo, tra l’incredulità e la richiesta di pietà, all’assassino. Con il coltello infilato nella schiena barcollò tra lamenti e frasi sconnesse.
Com’erano diversi dai suoi gemiti e dal fraseggio da bordello che usava quando voleva provocarla!
Scivolò in avanti, aggrappandosi prima alle spalle di lei, poi ai suoi grossi seni e infine ricadde sul suo ventre, dove sempre si era abbandonato, mentre lei affondava la lama.
Lo prese per i capelli, mentre esalava forse il suo ultimo respiro, per poterlo guardare in viso e si sentì come Salomè con la testa del Battista. La punta della lama fuoriusciva dal polmone destro e la vecchia cicatrice prese a stillare sangue.
Lo baciò sul cuore e poi sulle labbra. Si distese accanto a lui mentre il calore del suo sangue impregnava la sua pelle bianca, eccitandola. Lo guardò. Le labbra si dischiusero.
– Quindi dovremo continuare così, fino a quando gli organi genitali ci funzioneranno? – disse l’amante all’amato che non aveva capito la differenza tra il sesso e il suo amore.