Una casa che non è mai vuota mi dava l’idea di un posto pieno di vita, di movimento, di euforia, perché no. Il senso di vuoto, per parte sua, ha sempre avuto a che vedere con delle mancanze – dentro di me – che avevano bisogno di essere colmate, che stavano lì e benché rendessero statico tutto ciò che toccavano, non facevano che dilatarsi, occupare sempre più spazio, uno spazio così grande da non sapere da dove partire.
Una casa mai vuota rappresentava esattamente la negazione di tutte quelle mancanze.
Quando, tanti anni fa, mi fu chiesto quale fosse l’immagine precisa che la mia mente avrebbe partorito pensando alla parola casa, non avrei esitato a rispondere: una tavolata disordinata, bicchieri sporchi di vino, macchie sulla tovaglia, decorazioni di fiori dappertutto. La casa rappresentava il posto in cui la vita si consumava, come un pranzo organizzato in terrazza tra amici in un giorno di primavera inoltrata. Ricamare storie su quell’immagine diventava il mio hobby preferito. Come si erano conosciuti gli invitati? C’erano stati imbarazzi all’inizio? Qualcuno era in procinto di sposarsi? Avrebbero mantenuto ancora a lungo i rapporti d’amicizia in maniera così cordiale? O sarebbe subentrata la stanchezza negli anni? Tante domande per altrettante congetture, modi ingenui e creativi di occupare i pensieri.
Quelle storie avrebbero continuato ad echeggiare per anni nella mia testa, senza prendere mai forma reale. Chissà perché poi.. Che dipendesse tutto da quella sciocca superstizione, detta tra i denti tanto tempo prima? Secondo quella superstizione, inventata di sana pianta, esisteva una forza nascosta che si concretizzava ogni volta in cui mi accingevo a scrivere, specie se le ragioni che mi spingevano a farlo erano di natura sentimentale. Invece che esorcizzare distruzioni incombenti, le mie parole, nero su bianco, avrebbero attirato sciagure, sarebbero state l’inizio della fine. Credenze simili non potevano non suggestionare una ragazzina di tal fatta, era inevitabile che accadesse. Così tutte quelle storie rimasero inespresse, mai raccontate, immobili ad uno stadio di stasi esistenziale, creando scompigli interiori non indifferenti. Si capisce! Immaginare così tanto aveva fatto confluire all’interno di me stessa, nella zona più ‘romantica’ del mio io più nascosto, una trafila di aspettative che, al pari delle storie mai scritte, erano destinate a rimanere bloccate nella fase teorica della mia vita, causando una delusione dopo l’altra.
Trascorsi anni ed anni in questo modo.
Maturai un rifiuto tale nei confronti delle vite degli altri (che mi sembravano tanto più reali della mia!) da aver completamente stravolto l’idea di casa che custodivo da bambina.
L’esistenza di chiunque, familiari inclusi, mi appariva d’un tratto incomprensibile, e tanto più si mostrava incomprensibile, tanto più si rivelava odiosa. Quegli ambienti profumati di primavera, evocati e agognati, svanirono, per lasciare il posto ad un’estate secca, asfissiante.
Come quando pensi ad una città addormentata nella calura estiva d’agosto: non gira nessuno per strada, non si sente altro che il fastidioso ronzio di mosche impazzite.
La mia casa, come quando ero bambina, aveva continuato ad essere tutt’altro che vuota; ma chi la abitava sembrava che la padroneggiasse spavaldo, rendendo l’aria claustrofobica.
Fu così che scoprii le regole dell’insofferenza, sempre in guardia quando ha a che fare con animi fragili. E non smisi mai, mai, di pensare che col tempo tutto questo non avrebbe potuto far altro che peggiorare.