… Per più letizia sì mi nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
nel modo che’l seguente canto canta
Sono i versi finali del canto V della terza cantica. Con questa chiusa insolita, ma certamente voluta, Dante prepara l’animo del lettore al canto VI, che inizia con le parole dell’anima a cui il Poeta aveva chiesto sia la propria identità sia la natura delle anime che risplendono nel cielo di Mercurio. La risposta alla prima domanda svela la personalità del beato con memorabili endecasillabi:
Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano
Giustiniano – imperatore d’Oriente per quasi quaranta anni, dal 527 al 565 d.C. – viene subito menzionato e ricordato per la grande opera legislativa, a cui è affidata la sua fama. La raccolta di leggi, che ancora porta il suo nome (è il Corpus iuris Civilis o Corpus iuris Iustinianeum) fu ed è tuttora la base legislativa di tutti i popoli civili. Dante, in questo sesto canto, ci consegna l’immagine di una figura esemplare, quasi un’icona del perfetto monarca. Nelle parole dell’imperatore, la conversione alla fede sincera porta la firma di Papa Agapito I, che avrebbe – secondo le fonti storiche del Medioevo – convinto Giustiniano del suo errore nell’aderire all’eresia monofisita (che vedeva in Cristo la sola natura divina), riportandolo sulla via dell’ortodossia. In realtà, però, Dante segue una tradizione medioevale errata, dal momento che l’imperatore d’Oriente non era seguace della corrente monofisita (la fonte è il Tresor di Brunetto).
Comincia a questo punto, sempre attraverso le parole di Giustiniano (che, si noti, occupano l’intero canto!), una lunga digressione sulla storia di Roma. È lo stesso monarca ad affermare la necessità di una parentesi su quello che chiama il sacrosanto segno, ossia il simbolo dell’aquila imperiale, successivamente fatto proprio dai Ghibellini e combattuto dai Guelfi, in una cruenta battaglia ideologica dagli esiti distruttivi.
La storia del sacrosanto segno inizia in Alba, prosegue con la lotta tra Orazi e Curiazi, si rafforza nel periodo dei sette re e acquista una reale forza nel periodo repubblicano, con le vittorie sui Galli, i Tarentini e i Cartaginesi. Poi l’avvento di Cesare, il passaggio del Rubicone e la guerra civile contro Pompeo, l’instaurarsi dell’impero, i governi di Tiberio e Tito (quest’ultimo distruttore di Gerusalemme e vendicatore della morte di Cristo, vero spartiacque della storia dell’uomo), la minaccia longobarda e l’intervento salvifico di Carlo Magno, che unì con il suo carisma la Chiesa e l’Aquila. Quindi l’attacco senza mezze misure a Guelfi e Ghibellini: i primi, capeggiati dagli Angioini francesi, oppongono al pubblico segno i gigli gialli, mentre i secondi si appropriano indebitamente di esso, sì ch’è forte a veder chi più si falli (cioè in modo che è difficile giudicare chi sbagli di più).
Giustiniano risponde anche alla seconda domanda di Dante (sempre formulata nel canto precedente) circa la natura delle anime che risiedono nel cielo di Mercurio: quì, afferma l’imperatore, sono confinate le anime di coloro che hanno fatto del bene per desiderio di onore e fama. L’amore rivolto a Dio è stato meno intenso, ma in tutti loro splende la luce della serena consapevolezza della perfetta giustizia divina, che premia secondo i meriti.
Le ultime terzine del canto sono dedicate a Romeo di Villanova: presentato dallo stesso Giustiniano, egli fu ministro e gran siniscalco di Raimondo Berengario IV, conte di Provenza. Operò sempre con onestà, raddoppiano le entrate dello Stato e ottenendo nozze regali per le quattro figlie di Raimondo, ma finì vittima dell’invidia dei cortigiani, che spinsero il conte a chiedere a Romeo conto del suo operato (storia simile a quella di Pier delle Vigne): quest’ultimo, ripresa la veste umile di pellegrino, si allontanò dalla Provenza, povero com’era venuto, e nessuno seppe mai più nulla di lui. È Giustiniano a raccontarci della sua grande forza d’animo, magnanimità e decoro nell’affrontare una vita a mendicare.
E nessuno più di Dante poteva comprendere cosa significasse l’amara ricompensa di una patria ingrata.