Sono un disastro con la matematica, una di quelle che per fare le addizioni deve riportare tutto alla decina. E sono anche un disastro con lo sport, dopo un paio d’anni di tennis in cui nei tornei mi facevano sempre competere coi principianti ho capito che l’indole dello sportivo non mi appartiene affatto. Ma non solo il senso pratico mi difetta: anche nel disegno o nella musica sono un’inetta.
Una passione ce l’ho però: le parole. Logorroica di nascita, lettrice vorace per diletto e necessità, scribacchina per desiderio. Amo la lingua, i dialetti, le espressioni, amo riconoscere un autore dal suo stile. Senza tutto questo credo che non sarei io, forse non sarei nulla. Forse è per tutto questo che, nel leggere Effatà di Simona Lo Iacono, mi sono sentita immediatamente avvampare di tenerezza per Nino.
Nino è un bambino sordo cui nessuno ha insegnato a parlare, a leggere e a scrivere, ma Nino le parole le sente lo stesso sotto la pelle; attraverso le vibrazioni delle assi di un palco, nel fiato delle parole soffiategli in faccia, Nino sente l’urgenza di capire e dialogare col mondo. Nino vuole essere fuori da sé, non solo esistere dentro di sé. Figlio di un’attrice emigrata a Londra e poi rientrata in Sicilia, a Siracusa, Nino Smith cerca il suo tramite nel mondo mentre conduce la sua battaglia, battaglia contro ipotetici nemici, che si svolge sul finire della guerra vera. Sono gli anni ’50 infatti, e il teatro Luna sembra un crocevia di anime in pena più che il posto per un palcoscenico e delle vere rappresentazioni e lì, in una buca, una trincea, il soldato Nino Smith, bambino combattente, incontra il suo alleato: uno strano suggeritore.
La narrazione non procede in linea retta e, inframezzati magistralmente tra le pagine della storia, incastrati ad arte per creare un acme e rivisitati, vi sono molti atti del processo di Norimberga. Il più famoso, e meno rispettoso delle procedure, processo della storia. Solo a dire “criminali di guerra” il sangue pare scorrere più lento nelle vene, e a leggere parole che da quelli avrebbero potuto essere pronunciate, si gela. Erano uomini quelli? Erano mostri? Come potevano eliminare uomini e bambini in ragione della loro razza, o della loro menomazione fisica o psichica? Nino Smith, il bambino cui in poche pagine si scopre di voler bene, sarebbe rientrato in quell’assurdo programma di eliminazione: Darwin utilizzato come paravento per pratiche abbiette, una selezione naturale che di naturale non possedeva nulla.
Simona Lo Iacono, con uno stile fluido e deliziosamente fruibile, incastra due storie crude, le rende una sola, fa nascere e crescere molti interrogativi. Primo fra tutti: esiste davvero una redenzione per chi ha avuto a lungo la faccia del male? Simona Lo Iacono è un magistrato e padroneggia il diritto, dedica il libro al figlio e, forse proprio perché madre, padroneggia l’amore, l’amore che non è mai melenso, mai sdolcinato, è pratico, carico d’attenzioni, è muto e parla con le mani. Questi due tratti fanno sì che le parti strettamente legate al processo siano assolutamente verosimili, e quelle legate alla storia di Nino toccanti ma mai stucchevoli.
Questo libro mi ha commossa e tenuta incollata alle sue pagine per poche ore, piccolo e densissimo com’è, con la voglia di dire a chiunque mi volesse ascoltare: leggilo. Forse è questo l’errore nel ritenere che il proprio talento sia un dare, nel mio caso parole, forse il talento più grande è riuscire a sentire. E in questo caso ha funzionato: questo libro l’ho sentito dentro.