È stata lei ad aprirmi le porte della scrittura, ad aprirmi le porte di un mondo in cui le sarei sfuggita per sempre.
Molti sostengono che l’impulso a quella fuga creativa che è la scrittura nasca in seno alla famiglia, dal primo, irripetibile, spesso controverso, per non dire conflittuale, rapporto che lo scrittore, ancora bambino, vive con sua madre. Una figura idealizzata e imponente, quasi totalizzante, che si imprime nei ricordi dell’infanzia circondata da un’aura mitologica, e da quei recessi domina e influenza tutta la vita.
O almeno, così è stato per molti; e così è anche per Emily Maude Tayler, la madre, e per sua figlia: Doris Lessing.
Nata a Teheran, nell’antica Persia inglese, nel 1919, e figlia dello stereotipo romantico per eccellenza di quegli anni post-bellici, dall’amore tra un ex soldato (Alfred Tyler) mutilato di guerra e un’infermiera, Doris Lessing trascorre la sua infanzia in Africa, nella Rhodesia Meridionale (l’attuale Zimbabwe, allora colonia britannica) dove la famiglia emigra poco dopo la sua nascita, inseguendo il sogno vittoriano delle “terre selvagge”, nella speranza di arricchirsi con le piantagioni.
Un sogno che però si rivela ben presto difficile da tramutare in realtà; la terra laggiù, nel cuore dell’Africa, non è feconda, e non è adatta né alla coltivazione del mais né allo stile di vita inglese. Doris trascorre la sua infanzia divisa tra le scorribande nella savana insieme al fratellino Harry, e l’High School for Girls di Salisbury, dove sua madre insiste a mandarla per fare di lei una “signorina per bene”. Ma Doris ha un animo ribelle e sensibile che poco si presta a essere ingabbiato nel prototipo sociale dell’Inghilterra vittoriana. Già da bambina la sua attenzione è rivolta, più che all’apprendimento delle buone maniere, alla situazione disagiata dei coloni e degli indigeni in Africa, ai conflitti razziali, alla discriminazione imperante.
Tutto ciò che vede in quei primi anni di vita la forgia profondamente. L’Africa e i suoi racconti torneranno spesso nei suoi scritti, perlopiù nei racconti (Racconti africani, 1964) prendendo vita sottoforma di impressioni, fuggevoli ma vivide, di un’infanzia trascorsa tra diverse appartenenze e mille domande senza risposta.
A 15 anni, stanca della scuola e della severità materna, Doris abbandona gli studi canonici per proseguire da autodidatta: si trasferisce nella capitale Salisbury (l’attuale Harare) dove, mentre lavora come bambinaia, ha il tempo di scoprire e appassionarsi alla politica, alla sociologia e alla letteratura. Legge prima Dickens, Stevenson e Kipling, poi Stendhal, Tolstoij e Dostoevskij. La lettura però non basta: a vent’anni il suo bisogno di fuga è incessante, così forte da spingerla a sposarsi due volte nel giro di dieci anni, prima con Frank Wisdom, da cui ha due figli, poi con Gottfried Lessing, attivista di origini tedesche conosciuto al Left Book Club, associazione culturale di orientamento comunista, che le regalerà un altro bambino e il suo cognome da scrittrice.
Nel 1949, con alle spalle trent’anni di vita tormentata, due divorzi e tre figli, Doris Lessing decide di lasciare l’Africa, l’altra madre, ugualmente totalizzante, che tanto le ha dato, sia nel bene che nel male, per lasciarsi indietro i ricordi e iniziare una nuova vita, nella speranza che questa fuga definitiva possa guarirla. Intanto ha già scoperto il potere rigenerante della scrittura. Approda a Londra con il suo ultimo figlio (gli altri due rimangono in Africa) per mano e sotto il braccio un romanzo, L’erba canta, che racconta il sudore, la fatica, la difficile convivenza con gli indigeni dei coloni inglesi in Africa. Il romanzo sarà pubblicato nel 1950, riscuotendo grande interesse da parte del pubblico londinese ma destando l’ira dei coloni britannici, che la bandiranno dalla Rhodesia.
A Londra, già reduce dell’esperienza comunista africana, si avvicina alle lotte femministe che imperversano in quegli anni; Il taccuino d’oro (1962) diventa il manifesto delle ragazze del ’68. Ma Doris Lessing non sposerà mai completamente l’ideologia femminista, né considererà mai la sua scrittura asservita al movimento:
Quello che le femministe vogliono da me è qualcosa che loro non hanno preso in considerazione perché proviene dalla religione. Vogliono che sia loro testimone. Quello che veramente vorrebbero che io dicessi è “Sorelle, starò al vostro fianco nella lotta per il giorno in cui quegli uomini bestiali non ci saranno più”. Veramente vogliono che si facciano affermazioni tanto semplificate sugli uomini e sulle donne? In effetti, lo vogliono davvero. Sono arrivata con grande rammarico a questa conclusione.
Spesso paragonata a Virginia Woolf per la sua capacità analitica di narrare senza tralasciare nulla, sezionando ogni dettaglio, sventrando ogni sensazione, fissando ogni attimo e ogni pensiero fugace, ed anzi lasciando scaturire proprio da questo caleidoscopico insieme il dipanarsi della storia, Doris Lessing è considerata una delle voci più importanti del panorama letterario contemporaneo, in grado di spaziare attraverso vari filoni letterari, da quello socialmente impegnato, a quello fantascientifico del ciclo di Canopus in Argos, basato sul sufismo, forma di ricerca mistica tipicamente islamica, al romanzo realista e intimista, al genere autobiografico.
La sua produzione letteraria è vastissima, e annovera oltre 50 romanzi e innumerevoli racconti. Più volte candidata al Nobel, l’ha vinto nel 2007 con questa motivazione: “Cantrice dell’esperienza femminile, con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa”.
La sua penna agile ha scandagliato per 70 anni le profondità dell’anima e della società umana, raccontandone i cambiamenti con sottigliezza e ironia, senza piegarsi a nessuna ideologia. D’altronde, lei stessa dichiarò:
Mi rendo conto di aver vissuto momenti della storia che sembravano immortali. Ho visto il nazismo di Hitler e il fascismo di Mussolini, che sembravano destinati a durare mille anni. E il comunismo dell’Unione Sovietica, che si credeva non sarebbe finito mai. Ebbene tutto questo oggi non esiste più. E allora perché mi dovrei fidare delle ideologie?
L’unica cosa di cui Doris Lessing pare si sia mai fidata è il potere catartico di una buona storia, sapientemente raccontata. Un’arte in cui, senza dubbio, è stata una impareggiabile maestra.