L’ultimo numero della rivista Artribune riporta la seconda puntata sul futuro della fotografia. Domande, dubbi e confronti tra critici e storici dell’arte, artisti, editor, curatori e fotografi. Guardando all’ultimo lavoro di Umberto Mancini, In Rosso (Edizioni Cromàsia) ho ripensato alle parole di Marco Delogu sulla fotografia come arte veloce, “per facilità produttiva e capacità di critica collettiva” e soprattutto quando afferma che vi è un movimento di fotografi “che riflettono maggiormente sulla propria identità, sul rapporto forte e profondo tra la visione e l’interiorità”.
E ho ripensato a queste parole proprio sfogliando, leggendo e riguardando più volte, il libro (che da qui in poi vorrei chiamare racconto) di Umberto Mancini. Le sue fotografie, appunto il suo racconto riguardo la città natale, Napoli, conserva un’inaspettata lentezza visiva, scatti densi, concentrati in particolari del capoluogo campano che si dissociano dagli stereotipi televisivi.
Simona Guerra, in una prefazione tanto illuminante quanto succinta, prepara il lettore a ciò che lo aspetterà: non un reportage fotografico (termine tra l’altro dal quale rifugge lo stesso autore del libro) ma un racconto coraggioso, che vuole far conoscere la propria città da un’angolazione diversa, partendo da Marylin a Via Nilo e proseguendo per Via Chiaia, Via San Gregorio Armeno, Via dei Tribunali dando risalto a luoghi e persone, con accenni a un simbolismo inconsapevole, ravvisabile solo alla fine di questo viaggio (cadenzato dai racconti del Collettivo Corpo 10) in cui non esistono gerarchie cromatiche o concettuali, ma una “nota rossa, un trucco per farsi guardare in modo diverso”.
E allora credo che abbia ragione Simona Guerra quando scrive, nella stessa prefazione, che “ci vuole un bel coraggio a fotografare una città come la si vorrebbe, ma forse questo è l’unico modo per iniziare a cambiare la direzione delle cose”.