La dolcezza di Piccarda Donati, la solennità dell’imperatrice Costanza – marito di Enrico VI di Svevia e madre di Federico II – e la melodiosità dei versi, unita ad un grande rigore dottrinale (di matrice prettamente aristotelica): è per questi motivi e non solo che il canto III del Paradiso entra di diritto tra quelli più celebri del capolavoro di Dante.
Sul finale dell’azione precedente, il nostro protagonista aveva ricevuto dalla sua guida – la raggiante Beatrice – una chiara spiegazione circa la natura delle macchie lunari. È da qui che ricomincia l’intreccio narrativo: Dante alza il capo verso Beatrice per dichiarare di aver compreso pienamente, ma un gruppo di anime lo distrae. Anime che sembrano immagini riflesse in un vetro trasparente o in un’acqua nitida; credendo ciò, si volta indietro, ma non scorge nulla. Stupito, guarda la sua guida, che – nell’atmosfera dolce e poetica di questo canto – si mostra in tutta la sua celestiale bellezza: i tratti distintivi della donna sono il sorriso della bocca, l’ardore e la santità degli occhi.
Beatrice comunica a Dante che le anime non sono immagine riflesse, ma reali spiriti beati relegati in questo cielo per non aver adempiuto ai voti fatti, e lo invita a parlare con loro. A prendere la parola è Piccarda Donati, che in vita, dopo essersi fatta monaca nel convento di S. Chiara a Firenze, fu con la forza rapita da un gruppo di facinorosi guidato da suo fratello Corso, che la rapì per darla in sposa a Rossellino della Tosa, un violento guelfo di parte Nera. Splendidi i versi di presentazione della figura:
I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sè riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda
La beata spiega la posizione “più bassa” del gruppo di anime con l’inadempienza parziale o totale dei voti, e Dante si lascia andare – come già abbiamo visto capitare spesso – ad una domanda di curiosità intrisa di umanità: le anime collocate in un cielo più basso non sentono il desiderio di stare più in alto? La risposta sancisce in modo trionfale il legame tra Cristianesimo e logica: la virtù di carità – spiega Piccarda – appaga la volontà delle anime e tale volontà fa desiderare loro semplicemente ciò che hanno, senza bramare altro. Il segreto della felicità, potremmo dire. Tutto il canto è, secondo molti critici, un inno alla carità cristiana. La dimostrazione continua sul binario del sillogismo aristotelico: se la volontà di Dio è questa e il beato rispecchia la volontà divina per condizione, allora non c’è nulla da chiedersi:
E’n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella cria o che natura face
Piccarda Donati narra con una nota di malinconia la disavventura che ha dovuto separarla dalle nozze con Cristo, evidenziando poi la medesima condizione nell’anima che le sta alla destra: si tratta della gran Costanza, figlia di Ruggero II, sposa di Enrico VI e madre del grande Federico II. Una leggenda narra che Costanza sia stata monacata contro la sua volontà e poi tolta dal chiostro per essere unita, in vecchiaia, a Enrico VI: un fatto costruito, in realtà, per gettar discredito su Federico II, nato da una donna anziana ed ex-monaca. Dante accoglie la leggenda della monacazione, escludendo però ogni aspetto negativo.
Il canto si chiude sulle note dell’Ave Maria, intonato in coro dalle anime, e sulla luce abbagliante che sprigiona dal volto angelico di Beatrice.