Mia moglie me lo dice sempre: “Massimo, tutti credono che tu sia un uomo intelligente, ma non lo sei. Non sai nemmeno aprire una bottiglia di vino senza fare pasticci. E io ti amo per questo, per la tua leggerezza”.*
Massimo Gramellini ha 53 anni, è tifoso del “Toro”, ha il mito di Montanelli e di Dustin Hoffmann, ama i Genesis e i Police e non sopporta la regola del gregge. Alle spalle ha una storia travagliata e una moglie (la seconda, Elisa) che, a suo dire, l’ha guarito dalla vergogna, quella negativa e paralizzante, la vergogna di non essere uguale agli altri, quella che nasce dalla paura di non essere accettati per come si è.
Giornalista e scrittore di successo, il suo nome venuto alla ribalta con la pubblicazione del romanzo (quasi) autobiografico “Fai bei sogni“, Massimo Gramellini nasce a Torino da genitori romagnoli. La sua è una storia di vita come un’altra, eccezionale nella sua normalità. A 9 anni incontra l’orrore, il male di vivere. Sua madre, malata di cancro, scompare tragicamente, in circostanze che restano misteriose fino alla rivelazione che gli ha cambiato la vita.
Io avevo tutti gli elementi per sapere come era avvenuto il suo addio, ma non avevo la forza per accettarlo. Ho incontrato la realtà soltanto quando sono stato in grado di reggerla.*
Quel momento è arrivato cinquant’anni dopo, quando, da un amico di famiglia, Massimo ha scoperto la verità sulla morte di sua madre. Una morte avvenuta per scelta. Una scelta consapevole, discutibile forse, ma definitiva, senza possibilità di scampo. La scelta di porre fine alla propria vita, lanciandosi nel vuoto per stroncare l’avanzare devastante di un cancro che la divorava, e da cui probabilmente non sarebbe mai riuscita a guarire. Una scelta, quella di sua madre, che il padre – così autorevole e poco incline alle dimostrazioni d’affetto – gli ha tenuto nascosta per cinquant’anni nel goffo tentativo di proteggerlo.
Questi cinquant’anni Massimo li ha riempiti con una brillante carriera, un matrimonio e un divorzio con Maria Laura Rodotà, anche lei giornalista; un secondo matrimonio con Elisa e poi la persistente, totalizzante passione per il giornalismo.
Indicato da alcuni come l’erede di Michele Serra, autore di “Buongiorno”, rubrica di successo de “La Stampa”, Massimo ha seguito quell’antica passione che poi è diventata un mestiere, e che l’ha portato da Torino, dove ha lavorato come praticante nella redazione sportiva del “Giorno” raccontando il primo scudetto di Silvio Berlusconi alla guida del Milan, alla redazione romana de “La Stampa”, dove tra il 1988 e il 1991 è stato cronista dell’ascesa di Maradona e di Italia ’90; poi a Roma, a raccontare lo scandalo di Mani Pulite come corrispondente da Montecitorio, e ancora a Milano, dove con la direzione di “Cuori allo Specchio”, rubrica di posta del cuore, si concretizza quella virata che porterà la sua carriera a spostarsi lentamente dalla cronaca (sportiva e politica) alla narrativa.
Solo nel 2005 Massimo Gramellini torna a Torino, come vice-direttore de “La Stampa”. La sua carriera di romanziere vero e proprio inizia poco dopo, con la pubblicazione di “L’ultima riga delle favole” (2010) e poi di “Fai bei sogni” (2012), il romanzo post-rivelazione che lo consacra come vero e proprio narratore, vendendo oltre 1 milione di copie.
Un romanzo catartico, che nasce dalla riapertura (e dalla definitiva sutura) di una ferita vecchia di cinquant’anni. È allora che la scrittura lo chiama, lui che già al liceo, frequentato in un istituto di preti perché, a detta del padre, le scuole pubbliche erano piene di comunisti, andava bene in una sola materia: italiano.
Massimo non ha problemi a indicare “Fai bei sogni” come un’opera “auto-referenziale”, scritta “con il cuore”, per se stesso prima che per gli altri. Per perdonare suo padre, il destino, e due volte sua madre, una per essere morta, l’altra per essersi uccisa.
Oggi, cinquant’anni dopo, Massimo Gramellini porta ancora con sé una foto della donna che è stata sua madre, e un pezzo di carta con un abbraccio scritto e firmato dal padre, talismani che servono da protezione e da memento.
Una storia come tante, la sua. Che però grazie alla scrittura diventa immortale, un faro che in lontananza conforta il naufrago, mostrandogli che esiste ancora (esiste sempre) una possibilità di salvezza.
Ci vuole coraggio a mettersi a nudo, raccontare la propria vita, svelare i particolari delle tragiche circostanze che l’hanno forgiata. Inventariare dettagli, sfumature di sentimenti consegnandoli alla carta che li rende pubblici. Raccontarsi è un po’ come immolarsi sull’altare del bene comune, dire al prossimo: “questa è la mia storia, queste le mie sofferenze; prendile, e fanne tesoro. Rinfrancati: non sei l’unico, non sei solo”.
Ci vuole coraggio, quel coraggio che (come scrive Erri De Luca) nasce proprio dalla vergogna.
Massimo Gramellini l’ha avuto, e quel coraggio, cinquant’anni dopo, l’ha guarito. E l’ha reso finalmente uomo.
*(da un’intervista al settimanale “Grazia”)