“Niente caos, dannazione” È il contenuto del telegramma che Jackson Pollock inviò nel novembre del 1950 a Bruno Alfieri, il critico italiano che aveva stroncato il suo esordio in Europa in occasione della prima personale organizzata da Peggy Guggenheim alla XXV Biennale di Venezia. Il Time aveva riportato il seguente giudizio: “È facile notare i seguenti elementi in tutta la sua pittura: caos, assoluta mancanza di armonia, completa mancanza di struttura compositiva, totale assenza di tecnica, ovunque rudimentale. Ancora una volta, caos.” E il pittore rispose lapidario a difesa della sua arte.
Negli anni Novanta Richard P. Taylor, fisico e appassionato della sua pittura, intuì che la famosa tecnica del dripping, letteralmente “gocciolamento” sperimentata ai livelli più estremi, in quanto “casualità controllata”, aveva portato Pollock a riprodurre su scale diverse le stesse figure geometriche, cioè a dipingere frattale. A questa intuizione lavorò con i colleghi Adam Micolich e David Jonas.
Il connotato frattale della pittura di Pollock, tuttavia, sembrava derivare non tanto dal dripping in se stesso ma piuttosto dai movimenti che Pollock compiva nel dipingere, secondo le tecniche di pittura dei sand painter indiani dell’ovest: “Non dipingo sul cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. (…) Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente “dentro” al dipinto.”
I tre studiosi si spinsero fino ad elaborare una vera e propria formula matematica e gli studi in tale direzione proseguono ancora oggi. (In questi giorni è stato annunciato che un team internazionale di scienziati analizzerà undici opere della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. Le opere saranno oggetto di approfondite indagini scientifiche: dall’analisi elementare (fluorescenza a raggi X) e quella molecolare, dall’imaging alla riflettografia multispettrale per definire la tecnica pittorica dell’artista e lo stato di conservazione delle opere.)
Ma se Pollock fosse più o meno consapevole delle caratteristiche del moto caotico e cercasse di riprodurle sulla tela, con dieci anni d’anticipo rispetto alla formulazione della teoria del caos e venticinque anni prima che i frattali fossero scoperti da Benoît Mandelbrot nei fenomeni naturali, come le foglie o le nuvole, non è dato saperlo. Forse è lo stesso Pollock che ci offre un suggerimento quando dice: “Quando sono sul mio quadro, non sono cosciente di ciò che faccio. È solo dopo una sorta di presa di coscienza che vedo ciò che ho voluto fare. (…) Solo quando perdo il contatto con la tela il risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia totale, comunicazione reciproca, e il quadro è riuscito.”
Caos o ordine? Casualità o consapevolezza? È una domanda che, investendo la comunicazione e il linguaggio, trova la sua risposta in colui che, in letteratura, rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia: Jack Kerouac, maestro nella tecnica dello stream-of-consciousness, ossia flusso di coscienza, stile prediletto dai autori beat degli anni Cinquanta. In realtà, questo stile attraversa tutta l’arte di quel periodo, pittura e musica comprese, perché se lo spirito realista nell’arte era stata la risposta alla Depressione degli anni Trenta, l’arte del flusso di coscienza, fu la reazione alla Guerra Fredda e agli anni Cinquanta.
Mentre l’Europa inziava la ricostruzione, infatti, la fine della guerra riportò in America antiche paure, in un clima di sfiducia, sospetto, ansia, paranoia, particolarmente avvertito nelle arti che, tuttavia, conobbero un periodo di grande sviluppo e vigore. All’Espressionismo Astratto (termine applicato a tutti quegli artisti che, seppur con stili diversi, operarono a New York a partire dagli anni Trenta e nel periodo post bellico, accumunati dalla propensione per le superfici grandi e piatte e dalla spiccata tendenza alla ribellione) corrispose, in letteratura, la Beat Generation e Pollock ebbe in Keroauc il suo corrispettivo letterario.
L’insofferenza derivante dall’enorme divario tra le promesse del “sogno americano” e il non pieno raggiungimento dello stesso, insieme alla sensazione di marginalità rispetto alla società americana borghese e conformista, portarono questi artisti ad esprimere il proprio disagio oltrepassando i limiti imposti attraverso la propria arte, filtrandola mediante esperienze dirette di vita vissuta. E così come Pollock intraprese una serie di viaggi verso l’ovest trascorrendo notti in carcere, al tavolo da gioco nelle bische clandestine o vivendo incontri mercenari, tra ricoveri psichiatrici e l’acool, che gli costò la vita, le vicende narrate in On the road (Sulla strada, 1957), scritto in appena tre settimane nel 1951, registrarono le esperienze estreme dalla Beat Generation, con uno stile che Kerouac definì spontaneous prose, stile che gli diede non solo immediata celebrità ma ne fece un’icona della letteratura americana, allo stesso modo del film girato nel 1951 da Hans Namuth, mentre Pollock dipingeva, che fece da cassa di risonanza nella diffusione in tutto il mondo della sua drip painting.
Tuttavia furono le Visions of Cody (Visioni di Cody) scritte tra il 1950-1951, e non pubblicate integralmente prima del 1960, a rappresentare l’esperimento più arduo della scrittura di Kerouac. Scoprì un nuovo modo di scrivere che definì sketching, attraverso piccoli componimenti di flussi di coscienza chiamati sketches, uno schema influenzato dalla prosa di Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto. Scritte precedentemente a On the road, sono definite da Kerouac stesso uno “studio del personaggio”: l’attenzione è concentrata su Neil Cassidy (Dean Moriarty in On the road) qui nei panni di Cody Pomeray, come rappresentativo di un tipo di americano in via d’estinzione. Si tratta di un romanzo sperimentale che ricerca una prosa non convenzionale, che si addica ad un argomento altrettanto non convenzionale.
Le parole di Pollock: “Posso controllare il flusso della pittura, non c’è casualità, così come non c’è un inizio o una fine” sembrano adattarsi perfettamente a definire la scrittura di Kerouac. Il procedere caotico, il gesto del pittore che fa gocciolare il colore in ogni angolo della tela, avanti e indietro, attraverso, rompendo gli schemi di composizione e suddivisione tra piani pittorici è parallelo a questa scrittura “slacciata”, che sembra ignorare le regole compositive e di struttura del romanzo così come generalmente inteso, nell’apparente assenza di una trama.
Ma così come non è il gocciolamento in se stesso ma l’insieme di quei gocciolamenti a definire l’opera pittorica, le pagine del libro, ad un primo impatto disorganizzate, viste nel loro complesso, esprimono una unità compositiva, veicolando i sentimenti e i bisogni della “dannata America” di quel tempo, in un gesto creativo estremo e nuovo, una sorta di “drip painting letterario”.
Una casualità “non casuale”, quindi, ma “controllata” che segue un ordine mentale ben preciso, solo apparentemente inconsapevole.
Due artisti che si muovono, chi sulla tela, chi sulla strada, attraverso lo “scricchiolante” continente americano, dove si erano perse certezze e risposte, all’insegna del:
“Dobbiamo andare e non fermarci finchè non siamo arrivati.”
“Dove andiamo?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare” (Jack Kerouac)