Trovare un modello al quale ispirarsi è quantomeno un modo per non affogare nel proprio egocentrismo. Ma soprattutto la maniera per tendere verso un qualcosa o verso qualcuno. Ancora meglio, è il punto di partenza necessario e sufficiente di ogni proselite. Le miserie umane, il bisogno di identificazione, il fascino per il diverso. Sono questi alcuni dei motivi che scatenano l’attrazione e la malia degli idoli. E poi prendete un contesto frustrante, scialbo ed immobile ed il perché è presto spiegato. Potremmo dire che chi ha ideali ( sani ) nutre il desiderio di migliorarsi, di lottare per dei principi, di emulare ciò che per lui è nobile e degno di stima. Possiamo però anche dire che avere ideali implica vagheggiare una perfezione inverosimile, che per natura non esiste. Esiste nell’immaginario, nell’incanto della mente sedotta e lusingata.
Tiziano Terzani, un giornalista vero, uno di quelli che prima di scrivere volevano vederle le cose, la racconta una di queste delusioni e la racconta a suo figlio Folco in La fine è il mio inizio. Per un giovane come lui far carriera all’Olivetti doveva essere già il massimo, ma Tiziano era un idealista e per lui mettersi in giacca e cravatta al mattino non lo era per niente il massimo. Da sempre ostile ai valori proclamati del capitalismo, quando vince una borsa di studio per studiare a New York non sta più nella pelle. E non per essere stato scelto fra le migliori menti europee per il processo di americanizzazione che gli States facevano negli anni ’60. Tiziano è contento perché andrà a studiare la Cina e il cinese alla Columbia University, tutto a spese degli americani. Sì, proprio così ! Gli americani, quelli che dando carta bianca come simbolo di libertà, non controllano e non chiedono. E soprattutto non sanno che un fiorentino sta per fregarli. Ma nel 1980, quando finalmente arriverà in Cina, Tiziano dovrà ammettere che il sogno del comunismo è rimasto chiuso a chiave. Chiuso a chiave in un cassetto, tra Il Capitale di Marx e il Libretto Rosso di Mao Tse – tung.
Una delusione può avere molte cause, una visione del mondo, un credo rivelatisi falsi, ma anche idealizzando un uomo possiamo ingannarci. Peggio ancora, un padre. L’isola di Arturo, di Elsa Morante, è l’ambientazione perfetta per queste illusioni. Come potrebbe un bambino che non si è mai mosso da Procida non provare una sorta di esagerata adulazione per suo padre, uomo taciturno e misterioso, sempre in giro per chissà cosa? Come potrebbe non invidiare i suoi amici ( del padre, s’intende ), non considerarli degli eletti? Come non potrebbe immaginare che i suoi frequenti viaggi siano epiche peregrinazioni per elevate cause? Salvo poi scoprire che non è affatto così, che suo padre è solo uno straccione e che quei viaggi non erano che gite di pochi chilometri.
E allora viene da chiedersi una cosa: se valga la pena o no seguire una fede, sapendo di essere traditi ( almeno in parte chissà ), ma vivendo comunque con un sogno o affidarsi semplicemente a sé stessi, conoscendo la vera essenza del proprio io, potenziando la propria autostima, la propria indipendenza, la propria forza, ma forse anche la propria solitudine.