Osservavo tutto ciò che era rimasto delle nostre risate, delle nostre confessioni, dei nostri pomeriggi: un tavolo, due sedie. L’eco delle nostre discussioni stava assopita fra le fessure di quel tavolo in legno tutto scheggiato. Il locale era molto buio. L’unica fonte di illuminazione era la luce di una miriade di candele che circondavano tutta la sala. Poggiate a terra, abbandonate a loro stesse, producevano una fiammella debole, che minacciava di spegnersi da un momento all’altro. E al centro, in mezzo ad altri tavoli vuoti, sopra un pavimento freddo – in mezzo al nulla – stavano i cocci dei miei ricordi più belli.
La mia voce e la tua si alternavano simultaneamente, coprivano il trambusto che riempiva le mura della sala. Il ricordo delle nostre giornate passate là dentro si spalmava perfettamente con il presente, che ci ritraeva distanti, irraggiungibili.
Vidi un ragazzo ed una ragazza sussurrarsi qualcosa di tenero. Lei era molto sorridente. Il suo lucidalabbra faceva splendere la sua bocca. Ispirava freschezza, spontaneità. Aveva dei lunghissimi capelli castani. Le luci delle candele rendevano la sua pelle rosata ancora più morbida e delicata.
Lui aveva i capelli rasati. Indossava una magliettina nera e sopra un giubbotto di jeans smanicato. Jeans larghi, anfibi neri. Un sorriso spavaldo, grosse mani.
Pioveva.
Il pavimento di legno scricchiolava ad ogni mio passo, l’umidità entrava da chissà dove. La musica di un vecchio juke-box inglobava il chiacchiericcio che andava via via alzandosi di volume.
Ordinai un gin tonic e mi sedetti sul nostro tavolo. Lo trangugiai tutto in una volta, celebrando l’ennesima tua promessa non mantenuta: “Tornerò”.
In cuor mio sapevo che non saresti arrivato, che quello sarebbe stato un altro giorno speso ad aspettarti. Tuttavia, non mi mossi da lì.
Sminuzzai il tempo che passava nutrendomi dei discorsi altrui. Mi lasciai sommergere da problemi che non mi riguardavano e giunsi alla conclusione che tutti aspettano. Chi un regalo, chi una telefonata, chi spiegazioni. E forse, il maltempo, rendeva queste attese massacranti. Sembrava che il grigiore del cielo colorasse anche le pareti: le menti venivano offuscate dalla paura, la parola “impossibile” dipingeva l’aria che sapeva di muffa e sigaretta e birra. Erano tutti stanchi, si percepiva. Le parole uscivano stancamente dalle bocche e pensare sembrava dannoso. Anche raccontarsi lo era.
Quel posto trasudava tristezza, dipingeva i nostri pensieri di blu. Li rendeva malinconici, aridi di bellezza. Pesavano tonnellate.
Capii che l’attesa caratterizza l’esistenza di tutti, che pensare che il dolore di ciascuno di noi sia più insopportabile di quello di un altro è solo presunzione. Tutti aspettavano, tutti stavano male, tutti erano impegnati a parlare dei propri dolori nella speranza di rimpicciolirne il peso. Dono a te un po’ delle mie sventure perchè possa sentirmi più leggero. Tu dammene un po’ delle tue, amalgale alle mie. Completale, completami.
Quel pomeriggio conobbi altri tipi di tristezze, altri tipi di attese. Andò in fumo la convinzione che io incarnassi il dolore, che tutte le altre persone non fossero altro che miei surrogati.
Non ero nulla di speciale, nessuno di particolare. Il mio dolore si incastrava perfettamente a quello degli altri. Non costitutiva nessun quadro: ero solo un tassello come tutti gli altri. Uno schizzo, una pennellata, una lettera, un numero.
Nel pub entrò un negro che vendeva rose. Ne acquistai una, mi alzai dal posto e una volta infilatomi il giubbotto, appoggiai quel fiore rosso e profumato sul tavolo.
Se tu fossi venuto, non avresti trovato nessuno seduto al tavolo. Solo una rosa che testimoniava la mia morte.
Avevo detto basta a te.
Tu eri un nodo sciolto ed io la persona che non sarebbe mai stata in grado di stringerlo.