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Coraggi schivi: Harper Lee

Volevo che tu imparassi una cosa da lei: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta si vince.

Questa lezione potremmo tutti impararla da Harper Lee. Perché, nonostante la sua personalità schiva e riservata, nonostante la scelta di tenersi lontana dalle luci della ribalta, forse per un sottile malessere, un dolore di vivere che si portava dietro sin dall’infanzia trascorsa nel lontano Alabama, retaggio probabilmente ereditato dalla madre cronicamente depressa, ebbene, nonostante tutti questi dettagli, che dettagli non sono e che fanno di Harper Lee un personaggio discusso e misterioso, non si può non affermare che Harper Lee abbia vinto.

La battaglia contro se stessa, contro il mondo o contro la vita, che dir si voglia; è spesso questa la radice pulsante che spinge alla scrittura. La lotta contro quel buio, interiore ed esteriore, vortice risucchiante e pericoloso dell’annichilimento, contro cui combattere ogni giorno per ritagliarsi costantemente quel cono di luce che salva dalla follia.

Lei, Harper Lee, quel buio l’ha esplorato, facendone materia di uno dei romanzi di formazione più famosi e apprezzati della storia d’America. E oltre la siepe, infine, ha gettato la luce che dissipa il buio, per se stessa e per tutta la società americana di quegli anni.

Nata in Alabama il 28 aprile 1926, Nelle Harper Lee trascorre la sua infanzia a Monroeville, nella periferia dimenticata del profondo Sud degli Stati Uniti, dove “i più giovani avevano poco da fare oltre che leggere”. Con una madre cronicamente depressa e un padre avvocato e segregazionista, ultima di 4 figli, Harper Lee cresce in un’America ancora fortemente impregnata da una mentalità discriminante. Unico svago oltre la lettura sono i pomeriggi trascorsi con Truman Capote, amico e vicino di casa.

Una relazione controversa, la loro, che tuttora molti critici non sono riusciti a spiegarsi. Capote fu il primo ad incoraggiare Harper Lee alla scrittura; così, quando nel 1949 lei decise di lasciare l’Alabama, fu da lui che andò, a New York, dove Truman Capote aveva già iniziato la sua carriera di scrittore pubblicando il suo primo romanzo, “Altre voci, altre stanze” (1948). Harper si impiegò presso la Eastern Air Lines e poi per la British Overseas Airways; circostanza che non le lasciava il tempo sufficiente per scrivere. Finché il compositore Michael Martin Brown e sua moglie Joy, amici newyorkesi, le regalarono un “anno sabatico”, offrendole, come regalo di Natale, una cifra tale da garantirle il sostentamento economico per un anno intero, da dedicare interamente alla scrittura.

All’epoca “Il buio oltre la siepe” aveva già preso forma nella sua mente e sulla carta, senza però incontrare il favore degli editori. Bisognerà aspettare il 1960 per la pubblicazione, che fu un immediato successo: quello stesso anno, Harper Lee vinse il Pulitzer per “To Kill the Mockingbird”, romanzo che ha segnato per sempre la storia e la mentalità americana. Molto più tardi, nel 2007, per quello stesso libro Harper Lee riceverà la medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza civile statunitense.

Nella motivazione del premio si legge:

Ha influenzato il carattere del nostro paese in meglio. È stato un dono per il mondo intero. Come modello di buona scrittura e sensibilità umana questo libro verrà letto e studiato per sempre.

Ma Harper non è un animale da palcoscenico; invece di sfruttare il successo derivante dalla pubblicazione del suo primo romanzo, decide di ritirarsi a vita privata. Non rilascia interviste, non parla con i giornalisti né con i fan. Preferisce nascondersi all’ombra dell’uomo con cui ha condiviso l’infanzia e l’amore per la scrittura: negli anni ’60 aiuta Truman Capote nell’individuare il fatto di cronaca da cui nascerà “A sangue freddo”, il romanzo forse più famoso di Capote. Il quale, però, non riconobbe l’apporto fondamentale fornitogli da Harper Lee, limitandosi a citarla nella dedica del romanzo insieme al suo amante gay dell’epoca, Jack Dunphy.

Ma Harper non se ne ebbe a male. Negli anni successivi tentò nuovamente di dedicarsi alla scrittura. Scrisse un nuovo romanzo, “The Reverand”, anch’esso ispirato alla vicenda realmente accaduta di un serial killer, il predicatore nero Maxwell di Alexander City, Alabama; ma il romanzo non vide mai la luce, per ragioni che lei stessa non chiarì mai. La sorella raccontò in seguito che il manoscritto le fu rubato subito dopo la prima stesura, e che Harper interpretò l’avvenimento come un segno del destino.

Un destino che prima l’aveva spinta a dare voce alle ombre della società, raccontando la sua infanzia nel Sud degli Stati Uniti, e che ora le intimava di fermarsi, di non continuare a scrivere. Come se tutto quello che Harper Lee avesse da dire l’avesse già detto in quell’unico, grande capolavoro.

Ma, anche in questo caso, Harper non se ne crucciò. In una delle sue rare interviste, quella del 1964 (l’altra consiste in una lettera aperta a Oprah Winfrey, direttore della rivista “O”, in cui, tasgredendo alla sua abituale riservatezza, Harper Lee raccontò la propria infanzia in Alabama) dichiarò:

Tutto quello che desidero è essere la Jane Austin del South Alabama.