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Good riddance.

Una volta ho preso il treno e me ne sono andato a Milano. I miei amici a Torino ad aspettarmi, a dirmi “poi dimmi com’è andata”, perché io avevo conosciuto un ragazzo e dopo due giorni abbiamo voluto conoscerci. C’è stato tutto quello che desideravamo entrambi: un appuntamento romantico davanti al Duomo, noi che non ci scriviamo perché vogliamo provare a riconoscerci in mezzo alla folla, i suoi capelli arruffati, i miei con troppo gel. Poi le passeggiate infinite per il centro di Milano, lui davanti a guidarmi ed io dietro, a vedere la sua tracolla muoversi e a pensare che la mia è più pesante, a parlargli di Nietzsche e a dirgli cosa significa “teoretico”. Il giro veloce alla Feltrinelli, dove voglio comprare mille libri e non ho un soldo. I racconti, le confessioni, le parole che escono dalla bocca tranquillamente perché tanto sappiamo che non ci rivedremo. I piedi e le ginocchia che si sfiorano perché siamo seduti su un tavolo del Mc Donald’s che è troppo stretto ma va bene così. Io mi pulisco le mani sui pantaloni grigi perché non ci riesco, a distogliere gli occhi da lui che mi parla per cercare il tovagliolo. Ad ogni sua parola mi si appesantisce il cuore, perché parla di ragazzi, di ex, ed io all’improvviso sento di voler diventare l’unico, di distruggere il passato e unire il mio cuore al suo, farne futuro.
C’è stato un treno che avrei dovuto prendere, ma io ho fatto di tutto perché correndo non riuscissimo a raggiungerlo: gli correvo dietro, piano, così avrebbe dovuto aspettarmi, e l’autobus diretto alla stazione avrebbe tirato dritto. “Prendiamo il prossimo, intanto andiamo a casa mia”.
C’è stato anche il sesso al primo appuntamento, lui che mi dice che vuole baciarmi, io che mi faccio audace e gli dico: sì però ti avvicini tu. Ci avvinghiamo sul letto ed io sto ad occhi aperti, perché inizio a sentire che quella camera spoglia non la rivedrò mai più. La ricorderò per molto tempo negli anni, solo quando arriverai tu nella mia vita s’appannerà come un vetro.
Mi ha fatto vedere il tamburello che gli ha regalato il suo gruppo preferito ad un concerto, riconosco gli oggetti sulla scrivania perché li ho già visti in fotografia. Un solo pensiero ho in testa: il treno. Lo stesso che devo prendere e voglio perdere.
Ci rivestiamo di corsa, mi bacia sulle labbra, gli faccio sentire Selena Gomez e lui mi dice che non gli piace ma che sono bello quando la canto. Parliamo di musica, mi offre un vassoio intero di pasticcini: “l’altro ieri era il mio compleanno, io non li finisco, se non ti offendi prendili pure”. Ma io ne tocco uno, ne assaggio solo uno.
Poco dopo sono sul treno, guardo fuori il finestrino e mi ascolto “I won’t let you go” di Avril Lavigne. Ma è solo un’anteprima quindi dura 30 secondi. Ed io viaggio con quei 30 secondi nelle orecchie, finiscono e li rimetto, il treno s’allontana da lui, s’avvicina a casa mia ed io mi sento strappato, in un angolo, triste.
Penserò a questa giornata per mesi, anni, e sempre ricorderò il Duomo farsi così piccolo quando io e lui ci camminavamo sotto. Racconterò ad ogni amico la storia con i suoi particolari, la ripeterò mille volte e loro non si stancheranno di dirmi che l’ho già fatto, che quelle parole le ho già spese per qualcun altro. Mi sembrerà tutto nuovo, il dolore mi parrà autentico ed insopportabile. Vedrò i giorni futuri con cinismo, avrò una mia vendetta, scriverò e farò carriera ed un giorno mi dirò ecco, io sono su uno scaffale e lui solo in un ripostiglio dentro di me.
Andrò a Milano con gli amici e ogni volta che passerò in piazza Duomo mi sembrerà di star male, di non potercela fare. Ci saranno canzoni che mi ricorderanno quel giorno di gennaio, ci saranno fotografie e coincidenze che non me lo toglieranno dalla mente.
Proverò a scrivergli, a scrivere a quel ragazzo dicendogli tutto. Ma le parole non riusciranno a legarlo a me, anzi, lo allontaneranno.

A primavera arriva un ragazzo che ascolta questa storia e in un qualche modo riesce a farmela mettere in un cassetto. Ne scriviamo una insieme, bella e triste. E’ scandita da “un weekend da me ed uno da te”, perché anche lui è dalle parti di Milano. Parliamo di tante cose, lui è un appassionato di astronomia e di letteratura inglese, così lui va alle conferenze su James Joyce annoiato ed io gli dico “vorrei tanto essere al tuo posto”. Ama le poesie, ne scrive addirittura qualcuna, ascolta Alanis Morisette.
Il sabato mattina cerco su internet posti in cui portarlo a cena, la sera metto benzina per fargli vedere che se non ho polso nella nostra storia, che se non so prendere decisioni e posizioni, la mia macchina la so guidare bene.
Tutta la nostra storia è scandita da quella sensazione di fine imminente. Stiamo bene, ci piacciamo, ma c’è qualcosa che ci divide. La sua paura di qualcosa, o forse la mia inesperienza. Me lo dirà lui al telefono: è troppo. C’è troppa fretta dentro di me. Di cosa? Di amarlo e di farmi amare, e lui non è pronto.
Quando finisce c’è la tristezza precedente che si rinnova, c’è il Duomo di Milano che era diventato il nostro punto di ritrovo che si erge, e adesso mi schiaccia, mi confonde. Si fa beffa del mio cuore a pezzi, del cuore che quando ho deciso di riprovarci gli ho dato in affidamento, “ti prego, non ridurmelo a brandelli ancora una volta”. Nei giorni seguenti la rottura cercherò di dare il meglio di me in ogni cosa. Nello studio che ho trascurato perdendo un anno, nell’umore che era a terra, nei libri di astronomia che da allora non ho più letto. Come se lui fosse una presenza invisibile che della mia vita vede e sa, come a dirgli “ti faccio vedere io, guarda chi ti sei perso”.
Così ho iniziato a recitare ogni momento che vivevo perché mi sembrasse facile pensare “se lui adesso venisse a Torino e mi incontrasse mi troverebbe indistruttibile”.

Da Milano non mi sono ripreso fino a quando non sei entrato nella mia vita tu. Hai fatto terra bruciata di ogni singolo momento di sconforto, hai reimpostato tutto come si fa coi cellulari. Non ho voltato pagina, ho cambiato libro. Non sono più stato il “non ancora”, il “troppo”. Sono stato un fidanzato un po’ bizzarro, con quell’ironia nera e il senso dell’umorismo sgradevole, le posizioni prese per partito preso, un anticonformismo fin troppo accentuato. Ma tu non te ne sei andato. Mi hai frenato le volte in cui ho corso, mi hai detto basta quando ridevo troppo per delle cavolate, mi hai detto “adesso fermiamoci” di fronte alla mia sete di visitare il mondo. Sei stato e sei ancora un compagno d’amore e di vita esemplare. Quando sei al volante della macchina e tramite sms ti rovescio le mie paure o i miei dubbi e tu riesci comunque a scrivermi per bene, a rassicurarmi anche mentre corri ai 120 chilometri orari. Quando c’è da litigare e sai dire “adesso basta urlarci dietro e facciamo la pace” con un bacio. Quando c’è da andare al cinema a vedere film che non ti ispirano e dici “so che mi addormenterò” e poi tanto non t’addormenti mai.
Dal non ancora al troppo a quello giusto. Il salto è stato grande, di tempo per cambiare la consapevolezza che ho di me all’interno di un rapporto ce n’è stato poco.
E Milano? Dov’è, che c’entra? Forse non è da nessuna parte, ed è questo che ha ribaltato tutto. Milano c’è stata quella volta cui da Malpensa siamo andati in centro per cena perché t’eri sbagliato a fare il biglietto per Londra e c’eravamo visti in anticipo.
Siamo passai in Piazza Duomo, ti ho detto: “ecco, vorrei fermare questo istante di me e te qua e poterne fare una fotografia”. Ma io avevo la digitale rotta, tu la Reflex in valigia, e insomma non era cosa. Siamo passati là sotto con i nostri trolley ed i cappotti, avevamo tanta fame. Che me ne frega del Duomo, bruciasse, ho pensato. Ora c’eri tu.
Abbiamo raggiunto il ristorante che due poliziotti ci hanno consigliato, camminando per il centro. Abbiamo visto i negozi chiusi, alcune coppie passeggiare, due piazze, e finalmente la pizzeria di cui ho ancora lo scontrino.
Poi a Milano ci siamo andati per un altro viaggio, per un concerto, per andare a ballare.

Milano, Milano, Milano… Forse c’è un minimo accenno di memoria, un ricordo lungo un lampo, una canzone sull’iPod che spunta fuori al momento sbagliato…ma non fa niente, non c’è dolore in quello che sento, né rimpianto o rimorso. Subito ritornano a mancarmi i momenti passati assieme con te, i ricordi felici che sanno farmi più male di quelli disperati, e il passato non è più passato, Milano non è più Milano, è un’altra città, quale città?, non lo so, una a caso, comunque nostra.

Ci sono certe strade, a Milano, che solo noi abbiamo visto, che nessuno potrà mai conoscere.