Comincia tutto qui. Al calar della sera. Sorseggio il mio caffè e accendo una sigaretta. Mi guardo intorno e qualcosa mi ricorda l’atmosfera di Parigi. Sarà la musica indo-pop trasmessa da piccoli altoparlanti, o le voci sguaiate di un gruppo di magrebini seduti a un tavolo alla mia sinistra, parole che sembrano fare a cazzotti con l’aria. Oppure gli sguardi tesi e la parlata secca dei quattro moldavi seduti alle mie spalle. Voci e suoni sconosciuti. Mi ricordo serate come questa, le sedie di vimini fuori delle brasserie o dei bistrot, che accoglievano le brevi pause prima della cena. Il buio, e le luci.
Ma non siamo a Parigi: questa è Livorno.
Guardo attraverso le vetrate rese opache dalla polvere, al traffico ancora intenso di auto e persone nella grande piazza. Come sempre, torna a trovarmi la meraviglia per la quantità immensa di vita che mi circonda. Milioni di pensieri mi scivolano a fianco, senza mai mescolarsi con i miei.
Mi chiedo dove stanno andando, tutti. Quali vite accolgono il loro passaggio, quali orizzonti si aprono alla loro vista e quante porte hanno chiuso alle loro spalle. Le delusioni, e le speranze. I traumi occasionali, le ferite mai rimarginate.
Poco distante, alcune finestre si accendono sulla facciata grigia di un palazzo.
Mi raffiguro i gesti consueti e sconosciuti, che soltanto posso immaginare simili ai miei, ai vostri, ad accendere e spegnere luci per definire il passaggio da una stanza all’altra, percorso mille volte compiuto.
I pianti seduti intorno a un tavolo, per chi è andato, e pentole poste sul fuoco, per chi deve tornare.
Pelli umide di acqua e sapone da asciugare prima di vestirsi per la cena, per l’amore o la rabbia.
Per l’indifferenza.
Vesti leggere da sfogliare in mille baci nella trasparenza degli occhi e delle parole, sempre le stesse, che rimbalzano da una parete all’altra fino a impregnare di sé tutta la stanza, tanto che alla fine appare inutile parlare.
Abiti serrati, tirati sino alla gola a difesa di un tempo che non desidera tornare, a chiudere nel fondo dell’anima persino il ricordo della felicità.
Gli occhi e la coscienza da addormentare di fronte a un televisore, il ciabattare curvo dei troppi anni trascorsi a pulire gli stessi pavimenti, le risa e i pianti dell’infanzia concessa o negata, tovaglie e piatti e bottiglie a nascondere gli spacchi che tagliano in due le tavole frettolosamente imbandite, alle quali sedersi per misurare quanta distanza separa.
Ogni tanto una figura si staglia conto il vano illuminato della finestra, e io immagino uno sguardo lanciato di fretta verso il fuori.
Sguardi precari contro la finestra, a calcolare quanto buio ancora deve venire.
Ho finito il caffè, e con gesto lento spengo la sigaretta. Sorrido.
In fondo, sono splendide queste vite che sfilano silenziose. Ci sarà la gioia, e la rabbia e il dolore sono elementi transitori. Siamo anime in viaggio, ognuna con il proprio bagaglio di esperienza. Cosa ne faremo, di tutto questo, ancora non ci è dato sapere. Quale sia lo scopo, come voi lo ignoro.
Ma credo ci sia un senso, nel creare vite da indossare come abiti per una sola stagione.
Costruiamo universi con il semplice esercizio della fantasia. I pensieri sono creativi, stanno alla base di tutto ciò che esiste e che esisterà. La nostra stessa esistenza, viene creata e indirizzata dalle nostre speranze e paure, dai desideri.
Prima di alzarmi, scatto una foto, poi con due passi mi trovo in strada, per affrontare il vento freddo che da poco si è alzato. Solo un brivido.
Nella grande piazza, il traffico si va diradando.
La mia fantasia corre dietro a ogni persona che vedo allontanarsi verso il proprio destino. Per ognuna di loro, io invento una storia.