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Più lontano ancora: l’infinita umanità raccontata da Jonathan Franzen

Quando ho preso in mano il libro di Franzen non ho pensato alle conseguenze emotive che avrebbe avuto su di me. E non ho pensato neppure alle difficoltà che avrei incontrato scrivendone. Le difficoltà nascono dal fatto di essere di fronte a una raccolta di meditazioni che assume il profilo di un racconto diaristico nel quale l’esperienza umana dello scrittore si confonde (talvolta lasciando il posto) con quella dell’uomo.

L’urgenza con la quale Franzen delinea il contorno della sua persona è la stessa urgenza con la quale ricerchiamo una corrispondenza fra la situazione ontologica personale e il contesto collettivo. Il dolore non vi ucciderà, il discorso per la cerimonia di conferimento delle lauree al Kenyon College nel maggio del 2011, affronta il tema dell’amore e del ruolo che ha assunto nella vita di Franzen passando per il “mondo tecnocapitalista” nel quale vivono le nuove generazioni. Della narrativa di Wallace, Franzen (legato a Wallace da un’amicizia “fraterna”) eredita un massimalismo postmoderno meno invasivo di quello dell’amico e più levigato attraverso l’utilizzo di slanci contenutistici che ricordano anche altri scrittori come Thomas Pynchon (tanto per citare un nome, anch’esso amato da Wallace).

Il dolore è il pretesto per raccontare la sua storia di uomo, la sua storia di amico di Wallace che ritroviamo anche e soprattutto nelle pagine successive, L’isola più lontana in cui la ricerca di una solitudine “meravigliosa silenziosa e grande” alla maniera di Herman Hesse è anche ricerca di risposte, quelle stesse risposte che Wallace poneva al lettore riversandole imperiosamente sulla carta senza accorgersi (e chissà se veramente non se ne accorgeva) dell’abisso verso il quale spingeva il lettore stesso. E ancora. Il dolore è il pretesto per raccontare la sua storia di figlio solo alla fine riconosciuto e perdonato, la sua storia di lettore (L’uomo che amava i bambini di Christina Stead, I cento fratelli di Donald Antrim oppure Il poliziotto che ride di Sjöwall Maj e Wahlöö Per), la sua storia di scrittore.

E senza troppi sforzi si può riconoscere un’unica grande struttura che fa a capo alla sua autobiografia. È lì, probabilmente, che Franzen ha voluto accompagnare il lettore e non mi riferisco tanto alla meditazione intitolata proprio La narrativa autobiografica quanto alla ristrutturazione di una narrativa volta alla ricerca e alla novità, all’ontologia personale, alla difesa e alla critica più di se stesso che degli altri, alla letteratura come primo (e non unico) approccio verso il mondo, alla solitudine e al dolore che, se è vero che non uccide (e neppure fortifica come si vorrebbe pensare), pone sempre e comunque di fronte all’infinita umanità nella quale è facile, e a volte non dolce, naufragare.