Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.
Eugenio Montale.
Oggi vi parlo di un classico.
E’ bene ricordarsi da dove veniamo, è bene soffiare via la polvere dai libri di questi grandi che hanno fatto della poesia italiana un vanto per l’intera Europa. La poesia fa parte della sezione “Mottetti” della raccolta “Occasioni”. Le ventuno poesie, brevi, che rappresentano questa sezione sono forse le più belle della produzione di Montale: si rincorrono e si richiamano immagini dedicate ad una donna, Clizia, ed ogni parola a lei dedicata ha una musicalità tutta particolare, con i toni del romanticismo più aulico e della malinconia più pregiata. E’ da considerare che la raccolta “Occasioni” risale al periodo dell’occupazione fascista, negli anni in cui si tentava di mettere un guinzaglio anche alla poesia, ma in risposta esplode il talento dell’Italia, esplode la rivolta nascosta nelle righe sottili delle poesie d’amore. Per quanto questa sia una poesia sulla sofferenza, sull’amore che si perde e si ritrova, che fa male, dilania e dissangua, è una poesia di protesta, di bell’uso delle parole, della metrica perfetta, e dell’elegante padronanza delle parole. E’ una poesia che dimostra, con una celata rabbia, che la cultura non la si può incatenare o comandare, che non ha regole o partiti.
La poesia di oggi apparve per la prima volta nel Dicembre del 1934, sulla “Gazzetta del popolo”. Capolavoro di endecasillabi e settenari, rime e assonanze, ossimori e familiarità. Sullo sfondo del porto della sua Genova, Eugenio parla d’amore. Di quell’amore che non può perdere, perché ogni cosa che gli passa davanti, che sia il vento, un’opera o il semplice vento del mare, lo colpisce al cuore, dritto lì dove il dolore si sente di più. Quel colpo rende ogni cosa cupa, insopportabile come il freddo a Primavera.
Anche la sua città natale, Genova, anche quel porto che conosceva bene poteva apparire come un freddo cantiere pieno di nuvole e polvere. Il dolore prende voce e diventa un ronzio fastidioso e angosciante, una cantilena della sofferenza che si diffonde nell’aria, come polvere tossica, come cenere di un presagio inevitabile. L’unica certezza, è che l’inferno è certo. Che non si sfugge alla sofferenza. Ogni volta che leggo questa poesia è come se ascoltassi perfettamente qualcuno recitarla, ed è il dodicesimo verso a creare questa incredibile magia. Quel verso spezzato è forse la meraviglia dell’intera poesia.
da te
Si interrompe, come fa la voce quando il dolore prende il sopravvento. E le uniche lettere che compongono il verso tronco rappresentano la causa del dolore stesso, la fonte dalla quale proviene.
La poesia, tuttavia, si pensa che non sia dedicata alla famosa Clizia, ma ad una “peruviana, di origine, e abitava a Genova”. E’ lo stesso Montale che ce lo dice, ma una parte di me, quella inguaribilmente romantica, pensa che sia dedicata a lei, che dietro un nome diverso, dietro un volto e degli occhi diversi, si celasse sempre lei. Che fosse sempre e solo lei la musa che riposava tra le righe delle sue poesie.