Mi è capitato di raccontare la prima sensazione provata leggendo i racconti di John Cheever: disordine. Una manciata di frasi che gioca con una narrazione scoordinata, disillusa, a tratti feticista, una narrazione che lavora con “l’intuizione, la percezione, i sogni, i concetti” (N.d.r., John Cheever in un’intervista al Paris Review nel 1976).
Mi sbagliavo. O almeno in parte. Se è vero che Cheever, come afferma nella stessa intervista, lavora con l’intuizione, è pur vero che il coinvolgimento emotivo dello scrittore nei confronti dei personaggi, quel rapporto che oserei definire viscerale, spinge il lettore a intravedere la voce di Cheever nel portiere di un palazzo dell’East Side di New York che assurge a ruolo di confidente per poi ripiombare nell’anonimato di una realtà impudente e fredda; in Hartley, il marito schiacciato dalla brutale realtà che la moglie, con cinismo, non manca di sottolineare: “Perché dobbiamo sempre tornare nei posti dove abbiamo creduto di essere felici?”, nel nuotatore che attraversa giardini come fossero stadi di uno sviluppo conoscitivo interiore, oppure nei personaggi femminili alla ricerca di un altrove in cui, secondo le loro aspettative, risiederebbe la felicità.
La scrittura chirurgica, come spesso è stata definita dai critici, trova la sua forza in una metafisica delle emozioni che affonda le mani tanto nella sfera umana, quanto nel tessuto sociale. Nei racconti più audaci si intravede il riflesso di un realismo moderno scarno di virtuosismi, ma preciso e analitico aderente a un modo di vivere, quello americano nei primi decenni del Novecento, che si nutre di sogni e illusioni salvo poi incrinarsi, tra le pagine di Cheever, sotto al potere di una allucinazione collettiva.
I racconti di John Cheever (Feltrinelli 2012) aprono la strada a un concetto di letteratura e a un modo di fare narrazione che ha trovato difficoltà d’accoglienza nel nostro Paese (eccezion fatta per le recenti pubblicazioni da parte di Feltrinelli e Fandango), tradizionalmente più legato al pensiero concreto e quindi poco incline alle sfumature letterario-intuitive di Cheever. Al lettore l’arduo compito di comprenderle nella loro totalità.