“..E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita” (Da Canti Orfici, la Notte cit.).
Attraverso la sua impetuosa sensibilità artistica, Dino Campana ha lasciato un segno indelebile nella letteratura del post decadentismo italiano. Come non definire rivoluzionaria quella sua scrittura ricercata, balzello tra prosa e poesia che solo un profondo conoscitore di metrica e stile può permettersi di azzardare?Leggendo i suoi scritti si ha l’ impressione di poter toccare le parole come fossero guaches di quadri simbolisti finanche futuristi, poiché le sue sono immagini reali che mescolandosi a quelle oniriche danno vita a veri e propri mondi a sé stanti. Quando si parla di lui si fa riferimento alla passione, alla natura ed ai miti della classicità e si indagano gli intimi ed intricati sentieri del pensiero e dei sentimenti umani. Nei suoi componimenti pervade lo sconforto per le vicissitudini umane borderline ostentatamente presentate al lettore; vicissitudini che sono frutto, nella quasi totalità, di esperienze vissute in prima persona.
Campana nacque a Marradi, un piccolo paese tra la Toscana e l’Emilia, il 20 Agosto del 1885. Nella sua famiglia piccolo borghese, dove come compagno di giochi aveva suo fratello minore Manlio, il futuro scrittore poté approfondire la sua curiosità per la natura, le scienze e quindi per la letteratura, in special modo quella classica. Sin dall’infanzia mostrò un umore instabile ed una eccessiva aggressività, segnali anticipatori di una malattia schizo-paranoide che segnerà la sua esistenza. Per tale motivo le sue doti artistico-letterarie furono definite da molti critici l’espressione di genio e follia. Nel primo quindicennio del “900 vagabondò per città e campagne riparando talvolta a casa di amici scrittori ed altre volte preferendo vivere per le strade o nei boschi. Risiedette in Svizzera arrivando a Parigi dove fu folgorato dalla lezione del circolo dei poeti maledetti e da Arthur Rimbaud in particolare, di cui si definì quasi l’alter ego, e durante queste esperienze scriveva senza sosta lettere agli amici scrittori Giovanni Papini ed Ardengo Soffici. Le sue missive trattavano di letteratura, arte, ed erano in fondo veri e propri articoli o brevi saggi che talvolta venivano pubblicati sulle riviste Lacerba e La Voce. Forti emozioni recò il viaggio in Argentina e in Uruguay di cui tuttavia molti dubitarono. Scrivere era per lui, prigioniero della malattia, una forma di libertà ma una libertà trasformata in arte perché anche una semplice lettera doveva raggiungere la perfezione stilistica. Con questa tensione, tra il 1913 ed il 1917 elaborò i “Canti Orfici”, il capolavoro che lo ha consacrato ai posteri. Si tratta di un componimento in prosimetro, dove prosa e poesia si alternano con maestria non nuova ma comunque complessa, perché fu già di Dante nella “Vita Nuova”.
Il titolo di questo componimento fu un omaggio ad Orfeo, dio greco della musica e dell’arte molto amato da Campana, sebbene la prima versione dell’opera, composta e consegnata a Soffici nel 1913 ma poi andata persa, si intitolava “Il più lungo giorno”. Ne i Canti Orfici vengono ripercorse esperienze amorose, viaggi, disavventure ma anche una profonda riflessione sulla natura e sul mondo.
Quasi fatale, per l’intensità della passione, fu l’incontro e la frequentazione con Sibilla Aleramo, scrittrice con la quale condivise versi potenti oltre che una burrascosa relazione terminata dolorosamente. Poco tempo dopo, nel 1918, lo scrittore fu internato in un manicomio per il peggioramento delle sue condizioni di salute e progressivamente abbandonò la scrittura ma non cessò di declamare quei mondi visionari di cui egli stesso era persecutore e perseguitato. Lasciò questo mondo nel Febbraio del 1932 ed in una delle sue ultime lettere chiosò “Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili”. L’eredità di Dino Campana è tra le più palpabili e riconoscibili attestazioni di autentica poesia.
Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco.
La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune,
delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca.
……………………………………………………………….
Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte: dal parapetto
Del cimitero le occhiaie rosse che si gonfiano nella notte: poi tutto, mi pare, si muta in rombo:
Da un finestrino in fuga io? Io ch’alzo le braccia nella luce!!(il treno mi passa sotto rombando come un demonio)
(Canti Orfici, Sogno di prigione).