Dafni, dolce Dafni…come sei bella, fanciulla.
Febo Apollo, colpito da un’acuminata quanto impertinente freccia erotica, osservava una giovanetta che giocava con la sua gatta Hypatia sulla riva del fiume, filtrando lo sguardo di fuoco attraverso i rami di una fitta siepe.
La ragazzina, ignara delle solari attenzioni, si rotolò sulla schiena ridendo mentre Hypatia si aggrappava alle lunghe ciocche dei suoi capelli in disordine, mordicchiando quelle che apparivano lucertoline in fuga.
Eppure, improvvisamente, la gatta parve udire un fruscio: puntando le orecchie in avanti, si avvicinò a testa bassa al fitto della vegetazione, fiutando.
Dafni, dolce Dafni…come sei sensuale, fanciulla.
Febo Apollo vide l’animaletto puntare verso di lui, guardandolo dritto negli occhi radiosi: lo sguardo di Hypatia, più verde del muschio giovane, aveva due fessure di notte profonda, come se sua sorella Artemide avesse lasciato la sua impronta lunare al centro di quelle pietre inflessibili. E non cedeva, quello sguardo, neanche davanti alla luce furibonda che emanava il giovane dio infocato. Anzi, lo fissava, curiosa, gli occhi che scavavano come succhielli appuntiti, senza timor sacro, senza rispetto.
Il dio accentuò la sua luce, ma le piccole lune si ridussero in graffi sottili senza smuoversi. Sentendosi scoperto, Febo ebbe la tentazione di tramutare in pietra la creaturina grigia dagli occhi insolenti, ma si trattenne: lungo le sponde c’era un gran viavai di donne che avevano consacrato la vita alla sua lunatica sorella, in abiti corti, pronte a bagnarsi per celebrare riti cui a nessun uomo era dato di assistere. E Apollo, per quanto divino, non avrebbe sopportato l’aggressione da parte di un gruppo di femmine infuriate, che Ade! Per questo motivo placò gli ardori, spegnendosi pigramente dietro il tronco di una grossa quercia.
Hypatia ritornò verso Dafni filosofeggiando miagolii acuti: la ragazzina le accarezzò il pelo dritto sul dorso fino a che non riprese a fare le fusa sotto le sue mani, beata e dimentica.
In quel momento passò di corsa Melia, una delle sacerdotesse, che lasciando cadere la tunica sull’erba gridò a Dafni di raggiungere le altre in acqua per iniziare il rito: Hypatia storse il musetto all’idea e osservò le ridondanti natiche della sacerdotessa sobbalzare fino alla riva con estremo disdegno. Alla sua espressione disgustata, Dafni le scompigliò la pelliccia ridendo, e si lasciò scivolare nelle acque gelide del fiume: i canti iniziarono subito dopo.
Mortalmente offesa dal trattamento inadeguato, Hypatia si scrollò sussiegosa e tornò ad osservare la siepe con interesse… qualcosa si muoveva, là dietro, e il suo istinto felino fiutava il pericolo. Prima che la prudenza la fermasse, la curiosità la spinse e infilò decisa il nasetto rosa tra le frasche. Si ritrovò così a fissare da molto vicino il volto di un essere che, nonostante le apparenze, non aveva il rassicurante e ben noto odore degli umani; anzi, non aveva nessun odore e questo non le piacque affatto. Spaventata, Hypatia non ci pensò due volte e gli soffiò in faccia, la bocca aperta sui denti aguzzi e il pelo ritto come un istrice. Sul profilo deliziosamente greco di Apollo arrivarono spruzzetti di saliva e le delicate narici vennero improvvisamente titillate da un aroma di pesce digerito; il dio, disgustato, si tirò indietro di scatto e solo la necessità di non farsi scoprire lo dissuase dal trasformare in batrace quella puzzolentissima bestia.
Tuttavia un terribile prurito faceva fremere il divino naso e il sovrumano faticò a lungo a trattenere una reazione sconosciuta e molto terrena all’improvvisa vicinanza di Hypatia.
Intanto dal fiume salivano le preghiere miste a gridolini: l’acqua era fredda, e le sacerdotesse non tutte giovanissime erano attraversate da brividi mistici come di gelo. Passato lo spavento, Apollo e la gatta, per ragioni diverse, si distesero aspettando Dafni con diversi intenti; Demetra felice aveva cosparso di erbe profumate e fiori la valle di Tempe in Tessaglia, e Morfeo agguantò il dio quanto la bestiolina.
Tuttavia il sonno e la pace vennero bruscamente interrotti da urla di collera: un ragazzo era stato scoperto in travestimento femminile e tentava vanamente di sfuggire alle grinfie delle sacerdotesse inferocite per il doppio sacrilegio.
Dafni approfittò della confusione per tornare a riva, dove si distese gocciolante, seguita da Hypatia: al dio non sembrò vero di scoprire l’adolescente da sola, nuda e indifesa, e si sporse nuovamente dalla siepe, pronto a splendere in tutta la sua magnificenza. Gli dei, si sa, non seguono alla lettera le maniere del Galateo, in fatto di conquiste, e Febo Apollo non era solito chiedere il consenso delle sue conquiste amorose. Si preparava quindi a calare sulla preda come un’aquila dagli artigli dorati:
Ah, Dafni, dolce Dafni…sei mia, fanciulla.
Ma allungandosi goloso per baciare le rosee labbra socchiuse si avvide troppo tardi della vicinanza di Hypatia, che gonfiandosi, miagolando, strillando e graffiando gli si avventò sul naso.
Il seguito di questo funesto scontro vide Dafni correre tra le braccia delle sacerdotesse, scampata alle apollinee mire, Febo Apollo fuggire lanciando raggi, starnuti e maledizioni all’indirizzo del dio Eros e di tutta la stirpe felina, e Hypatia leccarsi con noncuranza il pelo grigio prima di ritornare trotterellando dalla sua amica umana.
Ed è noto che da allora in poi la corona che cingeva il capo del dio-sole fu intrecciata di foglie di senape, la pianta più invisa ai gatti di tutto il mondo.
racconto tratto dalla raccolta Fedele al mito,
a cura di A. Morbidelli e F. Ferri