La poesia è sempre un atto di pace. Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina.
Scriveva Pablo Neruda nel suo Confesso che ho vissuto. Ed è così che ha vissuto, da poeta. La sua vita, da sempre divisa tra poesia e politica, è stata un continuo peregrinare alla ricerca di luogo in cui poter esprimere se stesso. Fervente sostenitore del Partito Comunista, nei periodi più bui del governo cileno, è stato costretto ad una lunga fuga, poi seguita da un esilio in Argentina. Gli anni lontani dal paese natio sono stati caratterizzati dai viaggi in Europa, Messico, Cina, India e URSS, in cui Neruda ha avuto modo di conoscere e fare propria la storia di ogni singolo paese. Così sono nati i componimenti in favore del popolo messicano, quelli contro la guerra in Vietnam, e in ricordo di Che Guevara. Il luogo diventa strumento di espressione nelle parole del poeta che, incapace di accantonare l’interesse e la passione per la politica, ne carpisce il senso: incentra su di essa la sua vocazione. Nei versi più intimi si scorge la denuncia, in quelli più semplici l’indignazione, le poesie sono quelle parole di cui tutti hanno paura.
La figura del poeta classico cambia in favore di una che vede il poeta coinvolto nella realtà politica e sociale, che innalza anche la poesia a messaggio che arriva a molti. Parlare di pace in tempi di guerra è possibile.
«Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia» si dice che abbia sussurrato ai militari durante una perquisizione ordinata dalla dittatura post Allende.
Il merito del poeta cileno è quello di aver anteposto due passioni alla propria vita, di averle sapute unire come in una missione civile e sociale. Versi che narrano d’amore e di guerra.