Scrivere oggi è quasi un gesto meccanico: lo facciamo tutti, ogni giorno. Non tanto quello di prendere carta e penna per scrivere un biglietto o un promemoria, ma piuttosto controllare i messaggini con il cellulare, inviare una e-mail, scrivere il nostro stato sui social network.
Cosa vorrà poi dire tutta quest’ansia quasi maniacale di dover sempre pigiare i tasti di un pc o di un tablet? Boh, questo lo facciamo spiegare ad altri. Noi ci soffermiamo su cosa vuol dire per alcuni scrittori sedersi e cominciare a riempire un foglio d’inchiostro. Scopriamo che le ragioni sono diverse, i momenti un po’ impensati, le circostanze variabili, il supporto quasi mai lo stesso.
George Orwell crede che ci siano quattro motivi fondamentali per i quali ogni scrittore, prevalentemente di prosa, sia portato a scrivere. Il primo: egoismo puro, il voler sembrare migliori di quello che si è, essere argomento di conversazione, far parlare di sé, nel bene e nel male. Gli scrittori, secondo Orwell, condividono questo sentimento con artisti, scienziati, soldati, politici, una minoranza della popolazione più interessata a sé stessa che agli altri e che decide di vivere la propria vita da protagonisti, fino in fondo. Il secondo motivo: entusiasmo autentico, amore e passione per il bello. Desiderio di condividere con altri qualcosa che si crede essere irrimediabilmente unico e imperdibile, che sia un pensiero, una visione, un atto di rivolta. Il terzo e il quarto: impulso storico e politico, la volontà cioè di essere ricordati e di convogliare attraverso la scrittura un’idea/visione propria del mondo e della società. Per Orwell scrivere è, però, soprattutto un piacere, “una gioia, una celebrazione. […] Non è lavoro. Se è lavoro, fermati e fai qualche altra cosa” (Why I write).
David Foster Wallace condivide con Orwell l’idea che scrivere sia innanzitutto un atto di vanità, che permette all’io scrivente di poter parlare di sé e ricevere consenso per le proprie idee ed argomentazioni. Del resto, secondo Wallace, proprio questo impulso permette in prima istanza allo scrittore di cominciare la sua opera; il desiderio, cioè, di guadagnare acclamazione e fama (Both Flesh and Not: Essays).
Joy Williams parte dall’idea che chi scrive non cerca di ricostruire un pezzo di sé, rimarginare una ferita, alleviare un dolore. Infatti crede che il processo della scrittura sia innanzitutto un meccanismo di scomposizione e decomposizione. Si inizia per stabilire un contatto con altri esseri umani e, ad un tratto, ci si accorge che non è sufficiente. “Niente è mai abbastanza per uno scrittore” (Uncanny Singing That Comes from Certain Husks). Non diventa mai amico e confidente del suo prodotto, che è l’Altro per antonomasia, quello che non si conosce, che vive una vita falsa, che non appartiene a nessuno, se non al lettore. Il linguaggio ospita le sue parole, dà sostanza alle sue idee, le nutre, ma le lascia a disposizione di tutti.
In maniera un po’ dissimile, Virginia Woolf traccia i benefici, per uno scrittore, nel tenere un diario intimo, un quaderno su cui scrivere al ritmo dei propri pensieri, quando se ne ha voglia, e non quando si ha la fretta di finire una pagina di un capitolo. In A Writer’s Diary, Virginia spiega che il fatto di sedersi e scrivere qualche ora per conto proprio dopo il tè le sia utile per migliorare le sue qualità di scrittrice. Il suo diario somiglia ad una sorta di vecchia scrivania di legno scuro, piena di cassetti in cui nascondere e poi trovare oggetti utili e cianfrusaglie, pezzi di carta e bambole di pezza. È una scrivania a cui ci si fa ritorno volentieri, ci si siede e si aprono quei cassetti che, come le pagine di un libro, restituiscono pensieri fuggevoli e remoti. È uno scrigno di pensieri non in ordine, magari un po’ impolverati e sgualciti.