…la vide entrare: non tardava di un minuto. I primi giorni pensava ad una curiosa coincidenza – sempre a quell’orario, sempre con quell’aria sperduta – ma da qualche settimana, dopo mesi che la vedeva al bancone, cominciò a credere che ci fosse qualcosa di serio, di fastidiosamente ossessivo in quella spaccata puntualità. Era una delle poche clienti. Avrebbe ordinato il solito caffè, si sarebbe seduta a quel tavolino e avrebbe aperto il libro che teneva in mano. Sempre quello: “Gente di Dublino”, giusto?
Preparò con cura il caffè. Le volse le spalle, sperò per un breve tempo che una volta giratosi lei non fosse fuggita. Quando poggiò la tazzina sul bancone la vide lì: un lieve sorriso, una postura un po’ più rilassata, sciolta. Gli occhi trasparenti puntati sul nulla, le braccia morbide lungo i fianchi, il respiro lento e regolare di chi dorme solo con gli occhi aperti, di chi ora è qui ma chissà con la mente…
Chissà che voce aveva, si domandò Massimiliano. Eppure lei aveva appena ordinato un caffè: perché quella sua voce riusciva solo ad udirla e mai a sentirla?
Lui si preparava psicologicamente tutte le volte che la vedeva entrare nel bar. Si diceva sempre: eccola, questa volta devo assolutamente sentire la sua voce. Ma questo non accadeva mai. Si concentrava così tanto che finiva col porre attenzione al suo collo pallido, al vestito leggero e quasi trasparente, a quel libro sempre uguale, consunto agli angoli della copertina. Eppure lei era lì! Parlava! Lo faceva tutti i giorni!
Lo faceva prima di stringere con entrambe le mani la tazzina, dando l’impressione di volerla strangolare ma al tempo stesso difendere, una madre dolce e assassina.
Lo faceva prima di sorseggiare il caffè tranquillamente – era un momento che solo lei sapeva rendere eterno.
Lo faceva prima di tirare fuori una banconota da 5 euro da una pagina del libro, di quel libro che non aveva mai letto.
Lo faceva prima di prendere il resto, prima di ringraziarlo con un cenno del capo, di abbozzare un sorriso, uscire dal bar a testa china.
Non si guardava i piedi, non guardava il pavimento: con quegli occhi fendeva il nulla, vedeva al di là di ogni cosa.
Massimiliano si guardò attorno: due anziane signore parlavano amabilmente in un angolino del locale, un signore dormiva a braccia conserte con la testa poggiata contro il muro, una ragazza scriveva su un suo taccuino. Decise che sarebbe uscito a fumarsi una sigaretta, giusto cinque minuti di pausa. Mise il piede sinistro fuori dall’ingresso, come a voler tastare il terreno prima di uscire completamente dal locale. Si accese la sua Marlboro e mentre tirò un’occhiata all’enorme piazza che come un sipario s’apriva davanti ai suoi occhi, notò l’indifesa figura della ragazza vestita di bianco sedersi su una panchina – sempre quella, anche lei -, respirare profondamente e poi immergersi nella lettura del libro. Il suo sguardo tradiva l’interesse che mostrava il corpo. Le mani, il torace, tutto sembrava rivolto alla lettura, all’interesse del libro. Ma quegli occhi – quegli occhi… – aspettavano. Qualcuno o qualcosa.
Chissà che voce aveva… Fu un pensiero breve, brevissimo, interrotto da due gambe lunghe, perfette che gli passarono davanti.
Appartenevano ad una scrittrice con la quale prima o poi sarebbe finito a letto. Non prima di averle preparato un marocchino con la Nutella.
Ma Massimiliano questo ancora non poteva saperlo, pensarlo o presagirlo.
Spense la sigaretta con il piede, inspirò a pieni polmoni e rientrò al bar: altre cinque ore e poi sarebbe finalmente tornato a casa.
Un caffè, per favore?