“Non potendo più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi a una superior forma dominatrice, l’anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme.”
I tratti della personalità di Andrea Sperelli, “doppio letterario” di Gabriele D’Annunzio, si adattano perfettamente a descrivere il carattere di uno dei più poliedrici e versatili scrittori italiani. Nato a Pescara il 12 marzo 1863, fin dalla giovinezza D’Annunzio manifesta un particolare talento narrativo, pubblicando a soli sedici anni il libretto in versi Primo Vere. Frequenta il prestigioso Collegio Cicognini di Prato e, in seguito, prosegue gli studi letterari a Roma, dove si trasferisce nel 1881. In quest’ambiente l’autore acquista ben presto notorietà, anche grazie ad una produzione letteraria, spesso dai contenuti scandalistici, che spazia dai versi, alle opere narrative, agli articoli giornalistici. In questo periodo, D’Annunzio crea la maschera dell’esteta, vivendo da «principe rinascimentale» e rifiutando la moralità del mondo borghese. Tuttavia, nonostante l’ostentato disprezzo per la vita comune e la ricerca di un «vivere inimitabile», lo scrittore è costretto ad adattarsi alle esigenze del mercato del suo tempo. E così, proprio con la sua vita lussuosa e scandalosa, l’autore attira l’attenzione di quella massa che disprezza, ma che è necessaria per il successo delle sue opere.
Dopo aver soggiornato a Napoli, D’Annunzio si sposta a Firenze, dove comincia l’appassionata relazione con l’attrice Eleonora Duse. Nel frattempo, alla fase estetizzante subentra il nuovo mito del superuomo, per cui ad una vita improntata al culto della bellezza si affianca l’ attivismo politico, che porta D’Annunzio a intraprendere l’avventura parlamentare. Costretto dai numerosi debiti ad un «esilio» in Francia, allo scoppio della Prima guerra mondiale torna in Italia, dove comincia un’intensa campagna interventista. Arruolatosi come volontario, D’Annunzio si rende protagonista di imprese quali il volo su Vienna e, nel dopoguerra, della celeberrima marcia su Fiume, dove si insedia, ma viene scacciato nel 1920. Con l’avvento del fascismo, in un primo momento è esaltato come padre della patria, per essere poi confinato in una villa a Gardone Riviera, che egli trasforma nel «Vittoriale degli Italiani». Qui si spegne nel 1938.
Come è facile capire, l’ estetismo e l’attivismo dannunziani non pervadono soltanto la vita dello scrittore, ma anche le opere. Tuttavia, l’esordio letterario di D’Annunzio è influenzato da Carducci e Verga: in Canto novo (1882) infatti, l’autore riprende il vitalismo carducciano, denunciando tuttavia una fusione tra l’io e la natura, tipica del panismo successivo. Per Terra vergine (1882) invece, il modello è la verghiana Vita dei campi, benché il paesaggio abruzzese dannunziano sia un mondo idilliaco, regno del primitivo e dell’eros.
Le successive opere in versi sono invece il frutto dell’estetismo dannunziano per cui «il Verso è tutto»: l’arte è quindi il valore supremo che pervade ogni cosa, in primo luogo la vita. L’artista è un esteta che deve fare del proprio vissuto «un’opera d’arte», sottraendosi alla degradazione del presente e al ruolo marginale in cui l’aveva relegato il capitalismo imperante. In letteratura, questo culto estetizzante della bellezza si traduce nella ricerca di eleganze ed artifici formali, benché presto la fase dell’estetismo entri in crisi poiché l’esteta non possiede una volontà tale da opporsi realmente alle logiche del mondo circostante. Romanzo emblema di questa crisi è Il Piacere (1889), in cui tuttavia lo scrittore mostra di essere ancora affascinato da quel mondo raffinato. Segue la fase della “bontà”: in opere come L’Innocente (1892) e Poema paradisiaco (1893) D’annunzio esprime il vagheggiamento di un passato e di una purezza ormai perduti.
In seguito, con la lettura delle opere nietzschiane, D’Annunzio fa propri alcuni principi del filosofo tedesco, spesso modellandoli e banalizzandoli, creando così la figura del superuomo, caratterizzata da un vitalismo sprezzante della moralità comune e da una volontà di autoaffermazione. Naturalmente, per D’annunzio il superuomo è l’artista, un individuo eletto e superiore che, per mezzo della propria attività intellettuale, assume il ruolo di “vate” e di guida, cercando di dominare il mondo borghese circostante. Questi principi emergono nei romanzi il Trionfo della Morte, Le vergini delle rocce, il Fuoco e Forse che sì forse che no; a queste opere segue una produzione teatrale, con la quale D’Annunzio intende diffondere il superomismo mediante personaggi sublimati e tragici, secondo i moduli del teatro classico. Successivamente, con la lirica delle Laudi (Maya, Elettra, Alcyone, Merope, Asterope) si ha una svolta poiché il poeta diventa vate e cantore della modernità e della realtà industriale, che l’intellettuale tuttavia non smette di temere. L’ultimo periodo della produzione dannunziana viene definito “notturno”, a causa della provvisoria cecità che colpisce lo scrittore per il distacco della retina. In questa fase lo scrittore sperimenta un nuovo tipo di prosa lirica, caratterizzata dal frammentismo e dall’auscultazione della propria interiorità.
Non c’è da meravigliarsi quindi se la produzione letteraria dannunziana abbia influenzato, soprattutto nel campo della lirica, gran parte della poesia italiana del Novecento; quest’ultima, infatti, ha fatto proprie le soluzioni della poetica dannunziana, soprattutto sul versante del simbolismo. Tuttavia, l’influenza dello scrittore si estese anche nel campo della politica, per l’elaborazione di ideologie e slogan, e in quello del costume, con il fenomeno del dannunzianesimo, uno stile di vita che influenzò molte generazioni a venire.