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Orhan Pamuk: storia di uno scrittore

Ho studiato per più di tre anni architettura all’Università Tecnica di Istanbul, ma non ho concluso gli studi e non sono diventato architetto. Oggi ormai sento che questo è dipeso dalle mie fastose immaginazioni moderniste compiute davanti a lontani fogli bianchi. Ho capito che non volevo diventare architetto, né pittore, come avevo sognato per anni. Mi sono alzato e allontanato dai grandi fogli bianchi di architettura che mi provocavano i capogiri, mi agitavano e mi incutevano paura, e mi sono messo a sedere davanti ad altri fogli bianchi, che allo stesso modo mi provocavano i capogiri, mi agitavano e mi incutevano paura. E sto così da venticinque anni. Il vuoto del foglio bianco, la sensazione di trovarmi all’inizio di ogni cosa, il sogno che il mondo finirà per adattarsi al mio progetto, sono identici a quelli dei tempi in cui sognavo di diventare architetto. Senonché, con gli stessi sogni sono riuscito a scrivere per venticinque anni, e continuo a farlo. Allora riformuliamo la domanda che venticinque anni fa mi veniva rivolta tanto di frequente, come adesso: perché non sono diventato architetto? Risposta: perché pensavo che i fogli nei quali avrei riversato i miei sogni fossero bianchi. Invece ho capito ormai che i fogli non sono né bianchi né vuoti. So bene che, quando mi siedo alla scrivania, sono accompagnato dalla tradizione, dalle persone mai sottomesse alle regole e alla storia, da tutto ciò che è accidentale, disordinato, oscuro, terrificante e immondo, dal passato e dai suoi fantasmi, dai fatti realmente accaduti sui quali la società e la lingua ufficiali vorrebbero far scendere l’oblio, dalla paura e dagli spettri che alimentano la paura. […] Capii subito che non mi avrebbero lasciato costruire gli edifici che avrei voluto realizzare. Ma non potevano impedirmi di chiudermi in casa e scrivere. […] Quando iniziai a prospettare in modo vago la mia intenzione di diventare scrittore e scrivere <<romanzi>>, i miei parenti ed amici in coro mi dicevano che negli anni a venire avrei sofferto molto a causa della penuria di denaro. Il mio sogno soddisfaceva dunque un desiderio nascosto, a dispetto di tutti i sensi di colpa.”

Orhan Pamuk, 7 aprile 2008 sul Corriere della Sera.

Orhan Pamuk, classe 1952, è uno scrittore di origine turca; i suoi lavori, tra cui La casa del silenzio, Il castello bianco, Il mio nome è rosso, hanno ottenuto importanti premi (è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 2006, diventando il primo turco a ricevere il prestigioso riconoscimento). Il suo quasi viscerale bisogno di “assumere la medicina” che è la letteratura, di scrivere per sfuggire alla noia delle incombenze quotidiane, per risollevare se stesso da quel mondo che talvolta si rivela “un luogo insopportabile e tremendo”, è la testimonianza vivente del carattere necessario dell’arte, dei libri, ed è altresì il segno di un destino, che vede un uomo sottrarsi ai doveri e alle scelte (quasi) imposte da una famiglia che può dimostrarsi pressante, per canalizzare il proprio desiderio latente nell’unica espressione possibile: la scrittura. Quando si dice: vocazione.

La storia di Pamuk, estrapolata dal contesto storico e geografico che potentemente ha influito sul suo percorso letterario, è la storia di molti altri scrittori, che tanto spazio hanno nei manuali scolastici di italiano; potrebbe sembrare una storia già sentita: “Abbandona gli studi accademici per dedicarsi alla letteratura”. Da Jack Kerouac, futura promessa della squadra di rugby dell’Università della Columbia, a Carlo Emilio Gadda, fortemente spinto agli studi di Ingegneria che però non lo attraggono, a Jack London, e la lista sarebbe lunga.
Se esiste ancora – ed esiste – qualcuno che considera i romanzi nuovi territori che così come regalano felicità al lettore, al tempo stesso offrono al buon scrittore un nuovo mondo solido e sicuro dove può rifugiarsi ed essere felice a ogni ora della giornata, ebbene, perdono di significato gran parte delle elucubrazioni di tutti coloro i quali sembrano non tenere affatto in conto dell’indispensabile caratteristica della letteratura. E’ forse questa considerazione che conferisce quello straniante sguardo da privilegiato, che accomuna milioni di lettori, e che nobilita la cerchia – diremo ristretta – di scrittori, dovunque scrivano e partoriscano le loro opere.

Aldilà dei luoghi comuni, cui pure faccio ricorso – non lo nego – non resta, come direbbe Berchet, che coltivare il nostro potenziale diritto all’eternità.