Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno nè riposo,
finchè non saranno mie.
Karin Maria Boye
Si può scrivere dell’amore e della pelle, si può scrivere di quella magia strana e complicata che attira le persone tra di loro. Lo fa questa talentuosa scrittrice svedese, nata nel 1900, che attraverso versi di conturbante sensualità descrive quello che succede se scatta quella chimica, un po’ magica e un po’ istintiva, che ti fa amare qualcuno.
L’amore di Karina Maria Boye è un amore tormentato, di quelli che entrano lentamente nelle vene, attraverso i pori del corpo, che fanno sudare e feriscono. È quell’amore che non fa dormire la notte, che non conosce sonno o riposo, è quella fame feroce che si placa solo se si viene ricongiunti all’oggetto del desiderio.
Nata a Göteborg, si trasferì a Stoccolma con la famiglia, studiò a Upsalla e alla fine della prima guerra mondiale si schierò con il movimento pacifista Clartè, viaggiando attraverso l’URSS, la Grecia e la Germania. Fu principalmente poetessa, ma si occupò anche delle traduzioni di T.S.Eliot in svedese ed è conosciuta a livello internazionale per il romanzo Kallocaina. Donna attiva e inserita nell’ambiente culturale svedese fondò la rivista “Spektrum” presentando Eliot e il surrealismo al popolo svedese. Per quanto riguardo la poesia nel 1922 pubblicò la sua prima raccolta di poesie intitolata “Moln”, che in svedese vuol dire nuvole. Le successive raccolte di poesie della poetessa svedese presentano nomi che possono confondere sullo stile e sulla scrittura, in quanto presentano titoli come “Terre nascoste”, “I focolari”. Ma la scrittura di Karin Boye è un colpo al cuore, non ha nulla di ingenuo o metafisico, ne tantomeno presenta toni familiari o confidenziali. È una poesia brutale, è sofferta e le sue parole risentono degli echi di una Saffo matura, vittima della consapevolezza che l’amore è una sofferenza corporea, che avvelena non solo il sangue, ma anche la pelle, anche l’odore. Probabilmente il pathos della sua poesia è dovuto agli studi greci che tenne presso l’Università di Upsalla. Interpretando il ruolo di poetessa maledetta morì suicida, forse nell’Aprile del 1941, collocandosi tra le infinite schiere dei poeti suicidi. Anche nella morte, fu capace di conservare quel senso tragico e angosciante che si avverte nelle sue poesie: imbottita di sonniferi, il corpo è stato ritrovato su una collina da un agricoltore. Accoccolata su un masso, come se dormisse.
Quel masso è oggi la sua lapide.
«Si ha un bel parlare dell’ “amore” come di un concetto antiquato e romantico, ma io temo che esista, e che contenga, fin dall’inizio, un elemento di indicibile dolore. Un uomo è attratto da una donna, una donna da un uomo, e per ogni passo che compiono avvicinandosi, sacrificano una parte di sé; una serie di sconfitte, dove non si aspettavano che vittorie»