Nel 1987 una giovanissima giornalista italiana de La Stampa riesce ad incontrare –dopo lunghe trattative l’anziana signora Marguerite Germaine Marie Donnadieu. Partigiana, scrittrice, drammaturga e cineasta, donna dal carattere scomodo e dalle scelte difficili, il mondo intero la venera solo con il suo pseudonimo: “la” Duras.
Quella che doveva essere un’intervista si trasforma in una serie di incontri quasi confidenziali, che portano alla pubblicazione di un libro, incredibilmente solo in Italia. A gennaio il libro è finalmente tradotto e pubblicato in Francia per la prima volta (La passion suspendue – Ed. Seuil), restituendo la voce –a volte scabra a volte seducente- di un personaggio fondamentale della letteratura mondiale contemporanea.
Leopoldina Pallotta della Torre, autrice del libro, torna indietro negli anni e ricorda gli incontri con la Duras in un brano inedito: sensazioni, scambi, rapidi flash, il ritratto di una donna straordinaria si delinea in queste righe vivido e immortale.
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La prima impressione fu dura. Ero una ragazza all’epoca e, entrando nell’appartamento di rue Saint Benoît, mi trovai in una stanza disordinata e non tanto pulita. Davanti a me una donna -vecchia- se ne stava afflosciata alla scrivania. Non mi degnò di uno sguardo. Sembrava annoiata, diffidente. Accartocciata su se stessa, come qualcosa che non aveva forma o comunque l’aveva persa. Una donna piena di gioielli, così come ultimamente si presentava (anche nella trasmissione Apostrophe con Bernard Pivot e in tutti i film che vennero girati su di lei). Sembrava la madre di Des journées entières dans les arbres . Addosso, l’uniforme Duras, come lei stessa la chiamava: gilet nero, maglione a collo alto, gonna e stivaletti.
Un viso devastato, lo stesso che già da giovane lamentava di avere ne L’Amant. Il viso di qualcuno che per tutta la vita aveva sostenuto un corpo a corpo con l’ombra interiore di sé.
La guardai meglio. Soltanto poco alla volta cominciai a intravedere l’enorme paesaggio che si nascondeva dietro e dentro quel viso. Gli occhi blu avevano la bellezza e la luce degli zaffiri. Quando cominciò a parlare rimasi di stucco. Era la giovane voce di un’incantatrice.
Marguerite Duras era abituata a ricevere, a costruire di sé un personaggio pubblico fatto di piccole astuzie, civetterie di routine. Eppure era stanca, stanca anche di questo. Non era facile starle accanto. Io invece ero molto giovane all’epoca, e forse questo la spiazzò un po’. Anche il fatto che fossi italiana le piaceva, chissà. Conoscevo tutti i suoi libri, i suoi film, le sue pièces per il teatro. Ma avevo la freschezza e forse l’innocenza di qualcuno che veniva da un altro mondo. L’inattendu era questo, per una donna come lei.
La complicità femminile ha senz’altro giocato un ruolo importante nella riuscita del nostro incontro. Nemmeno nelle intenzioni iniziali volevo che il nostro fosse un libro-intervista, domande, risposte e così via. Semmai un testo pensato, scritto insieme, nel lungo tempo trascorso l’una con l’altra. Qualcosa di più strutturato, definitivo, meno provvisorio. Cercavo di andare oltre quella sua tendenza a parlare di tutto e di niente. Volevo qualcosa di diverso dal solito bavardage di due donne. Qualcosa che andasse anche al di là di quella perenne e consapevolissima autofiction dietro la quale si nascondeva.
Ancora oggi mi chiedo come quella donna abbia potuto fidarsi così completamente di me, quando si difendeva da tutti gli altri.
‘Vogliono parlare di me, con me, come se il mio tempo appartenesse a loro, come se spettasse a me intrattenerli su di me’.
Imparai a conoscere i suoi silenzi. Come lo spazio bianco della pagina, erano necessari e anzi davano una sorta di paesaggio alle parole.
Mi chiese dove vivevo, com’era la mia casa. Chissà perché lo voleva sapere. In un qualche modo, le interessava sempre “la vita materiale”.
‘È un lavoro pazzesco, la gestione di una casa. Gli uomini possono costruire una casa, ma non crearla’.
E infatti la casa conserva per sempre l’impronta della madre, un’impronta indelebile, affermava. In una casa ci sono due ordini, quello esterno e quello interno. Quello esterno è l’ordine visibile di una casa, quello interno è l’ordine delle idee, dei livelli sentimentali. Sosteneva l’importanza del corridoio, dove raccattare i bambini che corrono o vi si accasciano addormentati, quando sono stufi della vita dei grandi. L’importanza delle stanze adibite alla lavanderia, tutti quegli spazi che non ‘servono’. La donna viaggia, in casa. Solo lei conosce lo scenario di solitudine che è la vita di una donna nella sua casa.
Poi tutto questo lo abbiamo trascritto, se ne parlava, si leggevano delle parti. E ad un certo punto cominciò a fidarsi.
Fu un episodio in particolare a legarci. Una notte, rientrando a casa nell’appartamento in cui stavo al Champ-de-Mars ebbi una brutta esperienza con un uomo che mi aveva seguita nel buio a mia insaputa. Sconvolta, la mattina dopo raccontai l’esperienza a Marguerite. Ricordo l’espressione attenta e scrutatrice del suo viso mentre seguiva il resoconto del fatto.
Da quel giorno qualcosa cambiò. Fu come uno squarcio che si era aperto tra di noi. Mi fece spegnere il registratore. Eravamo io e lei in quel momento.
Con quella storia, ero – in qualche modo – diventata sua.