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Raccontare le vite degli altri: Truman Capote

Senza dubbio brillante, senza dubbio incandescente, senza dubbio maledetto.

Tre aggettivi per riassumere la natura – l’essenza – di uno dei personaggi più controversi e chiacchierati del secolo scorso. Aggiungete alcolizzato, omosessuale, tossicomane. Insofferente, sociopatico, borderline. Ma classificatelo anche come giornalista, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e attore. E avrete un ritratto abbastanza – ma mai troppo – esaustivo di Truman Capote.

Ci hanno provato in tanti, a descriverlo, a raccontare la sua vita, i suoi eccessi. Negli anni ’60 (ma soprattutto dopo il 28 novembre 1966, data del Black & White party, la festa in maschera organizzata al Plaza Hotel per festeggiare il successo di “A sangue freddo” che passerà alla storia come il party del secolo) la sua figura animava periodicamente le copertine di tutti i più letti quotidiani statunitensi, accanto alle notizie di cronaca mondiale e agli articoli sulla Guerra Fredda. Non solo James Michener, cui si deve l’accurata scelta dell’interessante trittico di attributi di cui sopra, ma anche Clarke Gerald, autore della sua biografia “ufficiale”, Harper Lee, sua compagna di infantili sventure che di lui ci ha regalato un fedele ritratto nella descrizione del piccolo Dill, uno dei personaggi del premiato al Pulitzer “Il buio oltre la siepe” (1960); e poi tanti altri, scrittori, scrittoruncoli e giornalisti che hanno tentato di carpire il segreto della sua esistenza.

Lui stesso provò a raccontarsi nella novella “The Grass Harp” (1951), ispirata alla sua infanzia in Alabama, trascorsa nella grande “casa sull’albero” insieme alla cugina Sook e all’amica del cuore Harper, novella che narra le vicende di un orfano, come lui si sentiva. Ma la sua passione erano le vite degli altri. Abbandonato a soli 4 anni dal padre, eclissatosi dopo il divorzio dalla sedicenne madre di Truman e ricomparso solo dopo il successo del figlio, attratto dal fascino della fama internazionale e dal miraggio dei soldi, Truman Steckfus Persons (questo il suo vero cognome) fu accudito da alcuni parenti della madre. Succube di lei e del suo alcolismo che la spingeva a cambiare uomini con la stessa facilità con cui vuotava bottiglie, Truman trascorre un’infanzia terribile. Si rifugia nei libri, gli unici a offrirgli un po’ di conforto. Quando, ormai adolescente, la madre gli impone il rientro in famiglia – una nuova famiglia, quella nata dal suo secondo matrimonio con Joseph Capote, di cui Truman assumerà sarcasticamente il cognome – e il conseguente trasferimento a New York, il giovane Truman ha allenato fino all’estremo una innata capacità di osservazione della realtà e comprensione delle disparate nature umane, e accumulato una cultura superiore a quella di molti adulti comunemente definiti colti. È pronto a lanciarsi nel mondo, e New York, immensa, ricca di opportunità, gli dà l’occasione di farsi conoscere. Nel bene e nel male. Cerca immediatamente un impiego presso la nota rivista letteraria New Yorker. Pur di avvicinarsi al mondo del giornalismo accetta di fare il fattorino (non durerà a lungo: Truman sarà licenziato per essersi spacciato come inviato per il giornale) e intanto scrive. Nel 1948 esce il suo primo romanzo, “Altre voci altre stanze” che riscuote un immediato successo, figlio dei già ricevuti apprezzamenti della critica per “Miriam”, racconto al femminile che gli valse l’interessamento e l’amicizia di personalità di spicco come Jackie Kennedy, Andy Warhol e Ronald Reagan.

A emergere in quegli anni dietro l’attenzione mediatica, dietro le prime, subito osannate pubblicazioni (“Colazione da Tiffany” esce nel 1958 e riscuote un successo immediato), è il ritratto in chiaroscuro – più scuro che chiaro – di una figura ambigua, tratteggiata a luci e ombre, talentuosa e allo stesso tempo condannata. Maledetta. Un novello Oscar Wilde che della “verità” (intesa in senso verista)  più che del “bello” ha fatto il suo unico scopo. Un giovane simpatico e tuttavia ombroso; misantropo eppure morbosamente legato, quasi bisognoso dell’altro essere umano, la cui presenza gli è necessaria a esercitare quell’esasperante capacità di guardare dentro l’anima delle persone e cogliere le essenze – le motivazioni, i significati – che si celano dietro le apparenze; amaramente capace di sarcasmo e spesso votato alla solitudine.

Un “doppio” dalle due facce, tra le quali prevarrà infine quella del misantropo. La strada non scelta, quel destino che avrebbe potuto toccargli e che Truman Capote intravide nella vicenda umana di uno dei due giovani assassini del celeberrimo “A sangue freddo”, ispirato a un fatto di cronaca nera, in realtà lo risparmiò solo per qualche decennio. L’altra vita, quella da sociopatico, alla fine tornò a bussare alla sua porta. La sua forza risultò smorzata, e Truman non uccise nessuno. Gli influssi negativi del suo passato scabroso subirono invece una virata autolesionista, ritorcendosi contro il genio che era riuscito a esorcizzarli.

Il successo di “A sangue freddo” spinse Truman Capote a proseguire la sua opera da pioniere in quella che riteneva la fondazione di un nuovo genere letterario, il “romanzo verità”. Gli venne così l’idea di raccontare tutto quanto aveva visto e vissuto a contatto con i divi del jet set. “Preghiere esaudite” (questo il titolo scelto per l’opera) non vide mai la luce e rimase incompiuto. Ma l’idea bastò a renderlo inviso a tutti i suoi amici illustri. Ormai rinnegato, emarginato dal mondo di cui pure era stato finissimo interprete, schiavo dei sonniferi e dell’alcool, affetto da epilessia, Truman Capote trascorse gli ultimi anni della sua vita in solitudine, vittima di amanti accattoni che miravano solo ai suoi soldi. La morte lo colse poco prima dei suoi 60 anni, a Bel Air, ospite della fedele amica Joanne Carson, riconsegnandolo al nulla nello stesso luogo in cui la vita da quel nulla l’aveva tratto, selezionando per lui i migliori attributi possibili.