Io come sono solo sulla terra
coi miei errori, i miei figli, l’infinito
caos dei nomi ormai vacui e la guerra
penetrata nell’ossa!… Tu che hai udito
un tempo il mio tranquillo passo nella
sera degli Archi a Livorno, a che invito
cedi – perché tu o padre mio la terra
abbandoni appoggiando allo sfinito
mio cuore l’occhio bianco?… Ah padre, padre
quale sabbia coperse quelle strade
in cui insieme fidammo! Ove la mano
tua s’allentò, per l’eterno ora cade
come un sasso tu figlio – ora è un umano
piombo che il petto non sostiene più.
Giorgio Caproni
Girarsi intorno e riconoscersi solo.
Giorgio Caproni, grande nome della letteratura del secolo scorso, poeta, critico letterario e traduttore, affronta in versi il tema della solitudine.
La poesia fa parte della raccolta “Passaggio di Enea” che trae ispirazione da un piccolo monumento di Genova, salvatosi dalla distruzione della guerra, che rappresenta Enea con sulle spalle il padre Anchise e per mano il figlioletto Ascanio. Il poeta durante il suo esilio si sente esattamente come l’eroe virgiliano. Partendo pertanto da una vicenda personale, da un trasferimento forzato a Roma durante i duri anni della guerra, Caproni riesce qui ad andare oltre i semplici riferimenti biografici giungendo al nerbo della questione.
La guerra invasiva, cruenta, il caos che invade le strade e i cuori spingono il poeta a trovare conforto nel ricordo del padre, nei momenti trascorsi con lui. Il genitore diventa il simbolo di una sicurezza che il poeta non vive più, di una tranquillità che è orami solo un illusione.
Il poeta si accorge di essere circondato da un vuoto profondo, la piaga della solitudine col suo carico di incertezza la fa da padrone.
Una poesia del ricordo che, pur legata ad un particolare momento autobiografico del suo autore, è possibile attualizzare e interiorizzare. Non più la guerra oggi, ma il lavoro, la voglia di cambiamento, la speranza di miglioramento costringono molti a lasciare il luogo dell’infanzia e a partire. A volte dare un senso al perché dei nostri giorni diventa difficile. In una città che non ci appartiene ci sentiamo smarriti, soli. Dunque ci aggrappiamo al ricordo di ciò che abbiamo avuto, degli affetti che abbiamo vissuto, e questi spesso ci fanno eco da lontano.
L’angoscia e il turbamento rendono il nostro cammino più pesante, più insicuro. Dov’è quella mano che abbiamo stretto tante volte, quel passo che segnava la strada che potevamo percorrere anche ad occhi chiusi?