Il 22 dicembre 1943 a Borgosesia, sul muro di ponente della Chiesa di Sant’Antonio, avvenne il più tremendo eccidio che la storia di questa città ricordi. Quel giorno di quasi settant’anni fa, quella mattina trafitta dalle punte del freddo non voglio farmela sfuggire, non voglio perderla, rovesciata assieme ad altre tragiche e preziose memorie nel coscienzioso canone delle cose da ricordare. Quell’elenco da cui sollevo, di anno in anno, la figura dell’eccidio del 22 dicembre, rischia di uscirne devitalizzato.
Come disse Marcel Proust a proposito del ricordo di una persona: “Poiché l’abitudine affievolisce tutto, quel che meglio ci ricorda una persona è proprio ciò che avevamo dimenticato (perché era insignificante, e così gli avevamo lasciato tutta la sua forza)”; allo stesso modo, anche per la mia memoria (e la vostra?) di quel fortissimo, enorme giorno, è forse meglio cercare ogni volta ciò che ho dimenticato o non ho mai saputo. Bisogna – credo – anche supplire con la fantasia ai guasti del ricordo. Certo una fantasia – manzonianamente – della verosimiglianza. Immagino allora dei visi, degli occhi, delle bocche (anche se la visione nata dentro di me non è quella che fu nella realtà, non importa).
Mi figuro delle dita crepate dall’aria gelida, degli abiti laceri, forse blu quello di Giuseppe Osella, nero quello di altri, grigio, marrone forse. Mi fingo nel pensiero delle lacrime che di getto si sdraiano come bave sulla carne delle guance. A piangere perché non vedrà più la sua mamma è forse Mario Canova, di quindici anni. O il partigiano Adelio Bricco.
Quelle dieci persone avranno avuto paura e avranno pensato che sul muro di una chiesa non si può sparare. E morire! Lo pensa il partigiano Renato Rinolfi, lo pensa Angelo Longhi, operaio cartaio e dirigente sindacale, lo pensa Enrico Borando.
Tutti però guardano con ancora una piccola e assurda speranza, perché non possono credere che finisca tutto così! Silvio Loss ripensa alla sua bottega, alle foto che ha appeso fuori – quelle del corteo del ventisei di luglio! Qualcuno ha gli occhi gonfi come uova, per le botte che ha preso: è così per lo studente Renato Topini, di anni diciotto, che non sa neanche picchiare? È così per il partigiano Emilio Galiziotti? È così per il contadino Giuseppe Fontana? Per Angelo Bertone, per Renato Guzzon, per Virginio Toniol?
Il 22 dicembre del 1943, proprio quel giorno lì, iniziava l’inverno. Proprio quel giorno lì avveniva il primo grande eccidio che la Valsesia partigiana ricordi. Si addensa insomma una serie di marche che fanno di quel giorno una specie di mito fondatore: non solo perché dentro quel giorno avvenne qualcosa di tragicamente e inesorabilmente straordinario, un gesto che nessuno ancora oggi sa catalogare tra le azioni normalmente umane – si trattò di un flusso di incoscienza generale, come se gli uomini in quel mentre avessero perduto quel minimo controllo che hanno sulle cose del mondo – ma anche perché da lì nacque qualcosa di nuovo. Una processione mortale che ha portato a un che di vitale, alla voglia di cambiare tutto, di arrivare a qualcosa che sarebbe stato completamente diverso dal prima. Nacque lì nella mia città, sessantanove anni or sono, come in molte altre piazze d’Italia, o vie, o casolari, o baite, o malghe (insomma in tutti i luoghi dove ci furono cose così sovrumane), nacque la voglia, il bisogno, la necessità di lottare definitivamente per far fiorire un nuovo mondo.
Nei venti mesi che seguirono, e ancora dopo, venne formandosi nella mente e tra le speranze di chi si consegnava alla morte, e di chi restava, l’idea di una Italia nuova, non di un ritorno a quella di prima, a quella che c’era avanti il ventennio. Non ci si accontentò più di quello. Si volle pensare a tutt’altro. Nasceva in molti l’idea di una nazione diversa, senza il Duce e senza neppure il Re. In questi morti che ho celebrato era piccolina, ancora fioca come lo è un embrione, l’idea, sconnessa certo, di quello che sarebbe stato dopo, la libertà, la Repubblica forse, la Costituzione, mi piace credere.
O più semplicemente, ma il principio è lo stesso, quegli uomini volevano un futuro più bello, quello che Italo Calvino ha tratteggiato nella canzone Oltre il ponte:
Avevamo vent’anni e oltre il ponte / oltre il ponte ch’è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita / tutto il bene del mondo oltre il ponte./ Tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore / a vent’anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore.