Voltaire diceva che “noi non viviamo, ma siamo sempre in attesa di vivere”. Aspettiamo che arrivi domani, poi il giorno successivo. Le ore scorrono e con loro la vita. Restiamo convinti, seduti e comodi, fidando che nell’attesa di qualcosa che verrà ci sia la speranza, forse la certezza, del successo di un’idea, di un progetto abbozzato. L’incapacità di agire e la volontà immobile di rimandare ci aiutano, paradossalmente a continuare.
Dopotutto, l’attesa e con essa la possibilità di meditare, ci permettono di prendere quelle decisioni che daranno un indirizzo, una rotta alla nostra esistenza. Frank Partnoy ci invita ad aspettare, a capire come “le decisioni sagge siano frutto del comprendere i nostri limiti nel pensare al futuro” e anche “nella nostra abilità di pensare all’attesa come parte centrale del nostro essere umani” come “un dono, uno strumento attraverso il quale analizzare le nostre vite” e prendere delle sagge decisioni perché, in quanto tali, “esse richiedono riflessione, e la riflessione ha bisogno di una pausa” (Wait: The Art and Science of Delay).
L’attesa ci educa alla meditazione, al rifuggire la puntuale corsa quotidiana verso l’autobus o la metropolitana, stipati come olive nere sgusciate e ripiene, ansiose di finire nel nostro sandwich mangiato di corsa al computer, perché lo stomaco può aspettare, il capo no. La gara ad ostacoli la impariamo presto, da quando, usciti dall’involucro materno impariamo a competere: chi camminerà prima, chi metterà prima il dentino, chi riuscirà a mangiare la prima pappetta, chi sarà il più bravo a scuola, chi arriverà prima e dove. Di corsa, sempre di corsa.
Forse è tempo di fermarci, e ricominciare ad imparare ad educare alla pazienza, all’attesa. “Insegnare come arte della scoperta guidata” diceva Mark Van Doren (Liberal Education). Una scoperta che pazientemente si rivela nella riflessione. Educarci all’attesa, al tirarci fuori dalla volata, a mettere la freccia e accostare per valutare e comprendere i sorpassi e le sgasature da un altro punto di vista, quello del guard rail. Sviluppare il pensiero laterale, la nostra creatività. Chi sta dietro una scrivania e davanti la lavagna dovrebbe aiutarci, o avrebbe dovuto, a cercare domande e non risposte, a complimentarsi “con un impercettibile gesto del capo” promuovendo “un’educazione dal di dentro” un uscire fuori, un educere, un imparare “l’eccitazione della scoperta” nell’attesa e nella riflessione (Philippe Petit, Cheating the Impossible).
Bisognerebbe rieducare a educare, a ripensare il nostro modo di imparare, ad approcciarci alle cose e alle persone. La gara contro il tempo iniziata quando siamo schizzati via in sala parto, dovrebbe rallentare, se non addirittura fermarsi. Il semaforo? L’occhialuto prof. che ci guarda in silenzio, che non ci spiega la lezione, non ci apre il cervello e gli dà una shakerata. No. Rosso: tempo delle domande. Verde: quello delle risposte. Giallo: quello della riflessione, della ricerca, della scoperta, dello sviluppo del pensiero divergente. In ultima analisi la creatività, l’abilità di formulare diverse risposte ad un’unica domanda, di dare interpretazioni differenti ad un unico quesito, di pensare lateralmente, non linearmente. L’immaginazione e l’ottimismo, ciò di cui parlano Douglas Thomas e John Seely Brown in A New Culture of Learning: Cultivating the Imagination for a World of Constant Change, sono strumenti essenziali per la conoscenza, vacui se non coltivati e nutriti nell’attesa, forse anche nella procrastinazione. Fermiamoci e aspettiamo, quindi. O almeno impariamo a farlo.