Per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà.
Con questa motivazione i 18 membri dell’Accademia Svedese assegnavano, nell’anno 1996, il Premio Nobel per la Letteratura a Wislawa Szymborska, poetessa e filologa polacca considerata da Iosif Brodskij una tra i più grandi poeti viventi.
Mai sentita? Non temete. Nemmeno io la conoscevo fino a qualche anno fa. Molti non la conoscono tuttora, nonostante il Nobel prima e la morte (avvenuta poco più di un anno fa, il 1° Febbraio 2012) poi l’abbiano portata a una tardiva – postuma – ribalta. Il perché è semplice: a lei, Wislawa, non piaceva la popolarità. Né i discorsi pubblici, né i convegni, né le letture d’autore. A lei piaceva la poesia. Faceva parte di quel due per mille della popolazione mondiale a cui piace la poesia (Ad alcuni piace la poesia, 1998). Che poi, perché piaccia, la poesia, non lo si sa. Nemmeno lei, Wislawa, lo sapeva. Tutto quel che sapeva era che la poesia la chiamava irresistibile, e che alla poesia bisognava concedersi per sottrarsi all’altro, ben più infausto richiamo, quello della morte: acufene fastidioso, sommesso ronzio che assorda l’udito umano dalla nascita, il costante appello della morte si combatte con un altro brusio, altrettanto sommesso ma piacevole: quello della poesia, parole sussurrate che nascono “dal silenzio”, perché solo nel silenzio si avvertono le voci dell’anima. (“La poesia nasce dal silenzio”, disse la stessa Szymborska).
Nata il 2 luglio 1923 da una famiglia di ebrei polacchi vicino Cracovia, città/madre alla quale resterà legata per tutta la vita, Wislawa subisce negli anni dell’adolescenza le brutture della Seconda Guerra Mondiale. L’incontro precoce con la morte, la precarietà dell’esistenza e la sua assoluta mancanza di senso spingono la giovane, futura poetessa alle prime riflessioni sulla vita e sulla morte: riflessioni che torneranno insistentemente nei suoi componimenti a verso libero, informali, colloquiali, venati di una sottile ironia che è l’unica àncora cui aggrapparsi per non sprofondare nel mare del nonsense. Lo stesso nonsense che con tanta crudeltà si palesò durante la seconda Guerra.
Costretta a proseguire gli studi in clandestinità e scampata alla deportazione grazie al posto come dipendente delle ferrovie (considerato lavoro forzato), alla fine della guerra Wislawa si iscrive alla facoltà di Letteratura (per poi passare a Sociologia) dell’università Jagellonica di Cracovia, senza riuscire tuttavia a terminare gli studi a causa delle difficoltà economiche. Intanto lavora come illustratrice e si sposa (due volte nel giro di 6 anni). Ma l’incontro che cambierà la sua vita sarà quello con Czeslaw Milosz, (poeta, vincerà il Nobel nel 1980), che la introdurrà negli ambienti letterari polacchi.
Attivista politica nel partito socialista polacco rea confessa negli anni della maturità (la militanza considerata “un peccato di gioventù”), contestatrice vicina al sindacato di Solidarnosc negli anni Ottanta, la Szymborska nutre la sua attività letteraria dei contrasti del mondo moderno, consumando però il suo talento poetico in parallelo rispetto all’impegno sociale, come una dote preziosa e fragile, da proteggere dai capricci della censura prima e dalla critica del grande pubblico poi. Non per timore del giudizio, ma piuttosto per un senso di pudore intrinseco rispetto all’intimità della sua anima.
Le sue poesie sono schizzi di realtà quotidiana, dissacranti e inattesi, che toccano temi tra i più disparati, dall’infanzia di Hitler (La prima fotografia di Hitler, 1998), a come scrivere un curriculum (Scrivere il curriculum, 1998), quadretti appena tratteggiati eppure densi, centrifugati di dettagli all’apparenza banali ma che racchiudono in sé il grande, misterioso e inafferrabile senso della vita umana. La morte, destino ineluttabile di ogni nato, vi aleggia quasi onnipresente. Solo la poesia può combatterla, “svelare l’inganno”, come scrive Stas’ Gawronski, mettere “in risalto i veri contorni delle cose”. La morte si combatte così: con acume, sensibilità e una buona dose di ironia. E poi, meravigliandosi. Sempre, di vivere in “un mondo stupefacente” (discorso pronunciato in occasione del conferimento del Nobel, 1996). Senza mai dimenticare che a ogni vita spetta anche solo un attimo di immortalità.
Non c’è vita
Che almeno per un attimo
Non sia immortale.