Per dirla con Alain Rye, consulente editoriale del dizionario francese per eccellenza, Le Petit Robert, “l’identità linguistica si trova all’interno della lingua madre in tutti i livelli fondamentali delle relazioni affettive e sentimentali”.
Di questo era convinto anche Raymond Williams che nella sua opera Keywords (Parole chiave) analizza e disseziona l’origine e l’uso dei lemmi più comuni della lingua inglese. Il suo è un viaggio a ritroso nel tempo che va alle radici dell’identità anglosassone e propone uno scavo archeologico delle fondamenta di un’identità linguistica forgiata su saldature e limature culturali fra greco, latino, francese, tedesco.
L’interculturalità e l’interlinguismo diventano strumenti di ricerca profonda per arrivare a comporre una catena cronologica di usi linguistici, significati retorici e oblii sintattici che legano insieme il tessuto di morfemi e fonemi della lingua e dell’identità inglese.
Capitalismo, anarchia, burocrazia, materialismo, uguaglianza, egemonia, democrazia ed evoluzionismo si alternano a creativo, dialettico, drammatico, rappresentativo, positivista, intellettuale, formalista. È interessante notare come i sostantivi si riferiscano alla sfera economica e politica di una nazione, mentre gli aggettivi definiscano la realtà individuale del suo popolo.
Più che un dizionario, Raymond Williams riscrive l’evoluzione dell’identità culturale anglosassone attraverso le parole che nel corso dei secoli hanno definito la sua storia. Perché ogni nazione ed ogni popolo sono figli e genitori allo stesso tempo della loro lingua. Con, e attraverso, essa costruiscono un rapporto famigliare con sé stessi e con gli altri. Un mondo a numero chiuso perché se la traduzione aiuta, a volte, purtroppo non basta.
Del resto, come la prenderebbero un inglese, un italiano, un francese se venisse detto loro: “Non ti sto mica appendendo noodles sulle orecchie”? Certamente male, perché non capirebbero. E invece un russo si sentirebbe rassicurato, perché saprebbe che nessuno lo sta prendendo in giro (cioè, in inglese, “non ti sto tirando una gamba”). Proprio l’espressione idiomatica russa dà il titolo al testo di Jag Bhalla, I am not hanging noodles on your ears. Al pari di Williams, anche Bhalla ricostruisce identità culturali e linguistiche di diversi popoli. Lui lo fa attraverso le espressioni idiomatiche. Il suo libro è una raccolta di frasi senza senso per alcuni, strambe e divertenti per altri, che fa comunque riapprezzare, in caso ce ne dovessimo dimenticare, la pluralità e la singolarità delle lingue.
Perciò se ingoi il tuo certificato di nascita in Francia, se chiudi l’ombrello in Costa Rica, se diventi un Buddha in Giappone, se appendi i guanti in Spagna, sarai passato a miglior vita. Se invece state pelando una banana a Porto Rico, se sentite la pelle del vostro stomaco tirare mentre siete a Tokyo, o se siete caduti col sedere a terra per le vie di Parigi, allora state pur sicuri che vi siete slogati una mandibola, o meglio, starete morendo dal ridere.
Da un lato, quindi, con rigore selettivo e ricerca minuziosa, William evidenzia quel significato denotativo che diamo alle parole chiave del nostro essere; dall’altro Bhalla mette in risalto la potenza connotativa dell’atto linguistico, i giochi funambolici della parola, la sua irriverenza e disinibizione di fronte a regole semantiche. La lingua ci assomiglia, la lingua siamo noi: a metà strada fra disciplina ed evasione, tra ordine e sregolatezza, tra forma e sostanza (mio caro de Saussure).