Aprite tutte le porte, toglietevi tutti i gradi e le medaglie. Venite ad assaporare la liberta con noi.”
“Se non avessero infranto la legge ora avrebbero a che fare con le faccende di casa o con i lavori di sempre”. Con questa frase, di un’ironia tagliente quanto la lama con cui infligge loro un castigo inammissibile, Putin liquida la sentenza che il 17 Agosto 2012 condanna la punk band “Pussy Riot” a due anni di carcere “per aver violato l’ordine pubblico, disturbato la quiete dei cittadini e insultato profondamente le convinzioni dei cristiani”. Ma facciamo un passo indietro, chi sono le Pussy Riot?
Alessandra Cristofari, redattrice presso Giornalettismo, scrittrice esordiente, che vanta una prefazione firmata Sabina Guzzanti, lo spiega con chiarezza. Nadezhda Tolokonnikova, Maria Alyokhina,Yakaterina Samutsevich, tre ragazze attiviste, impegnate nell’arte come metodo di dissenso, nella difesa del lago Baikal (luogo di culto per gli sciamani siberiani, in cui vengono scaricati rifiuti tossici. La difesa del lago è sostenuta da Greenpeace e ritenuta senza fondamento da Putin), partecipanti del collettivo Voina. Le Pussy Riot nascono nel Settembre del 2011, quando Putin decide di ricandidarsi alle elezioni, e l’idea di una punk band femminista e militante sembra loro l’unica via d’espressione per affrontare temi come i diritti LGBT, o il conformismo di una società di stampo strettamente patriarcale, che soffoca il dibattito e non propone nuove idee politiche. In questo modo nascono le loro proteste, una voce forte, prepotente, quella delle Pussy Riot, la cui traduzione letterale, contrariamente a quanto affermato in alcune sedi, niente ha a che vedere con gattine addomesticabili, ma con l’essenza femminile stessa. È la ribellione della donna, del suo corpo che rompe un silenzio forzato, che rifiuta di mostrarsi come oggetto immobile del piacere maschile, e si toglie le catene, cantando con rabbia consapevole il suo dissenso. Canta, registra, diffondi nei social network come Twitter o LiveJournal. Le note si diffondono, il muro di certezze sgretola.
Ma quaranta secondi di canzone, nella cattedrale del Cristo Salvatore, costano alle Pussy Riot due anni di carcere, il carcere russo, in Siberia, tra i più terribili dell’intera regione. Sono accusate di odio verso la Chiesa, di non avere rispetto per la figura Cristiana, eppure le loro denunce non hanno in sé il senso dell’odio, e leggendo il testo della preghiera anti-Putin, si ha l’impressione di una supplica alla Madre di Dio perché riporti in Russia l’umanità. Perché nonostante qualcuno continui ad affermare che l’amico Putin sia solo un uomo vittima di malpensanti, restano oscurate da un cono d’ombra agghiacciante le deportazioni in Siberia degli omosessuali e dei dissidenti, o gli omicidi sospetti di Anna Politkovskaya, Anastasia Baburova, Natalya Estemirova. Che il governo di Putin tremi davanti ad una band non deve sorprendere, la musica è più forte delle parole, le note trasportano, incanalano la rabbia con una forza che nessun politico o aspirante tale potrebbe provocare, non importa quanto si giochi a fare le rockstar, vite spericolate o grida di ribellione urlate da palchetti, che vorrebbero trasformare il dissenso rock in un’unica nota. I Clash o i Sex Pistols, come le Pussy Riot ora, non hanno cercato voti, ma espresso idee, ed è questo che impaurisce. E il fatto che ad occupare il palco oggi siano state delle donne, deve aver irritato parecchio il sorridente leader russo, che non ha ceduto neanche davanti alle difese di Madonna (denunciata per aver promosso l’omosessualità, nonostante le leggi anti-gay emanate dal governo), lasciando al suo vice Medvedev la liquidazione della pop-star come “vecchia b” (non difficile da interpretare!).
Alessandra Cristofari, nei ringraziamenti finali, ricorda “La Russia è la Cina, è l’Italia, è ovunque si scelga di abbassare lo sguardo quando la tragedia non colpisce diretta ma sfiora soltanto”….. nel frattempo “FREE PUSSY RIOT”!