Era un giorno del mese di giugno, una giornata calda e assolata, piazza Santa Croce era abitata da poche persone che camminavano indolenti e distratte, sfiancate dalla calura. Si respirava un’atmosfera strana, come se ci fosse qualcosa di misterioso sospeso sulle teste delle persone che sedevano sulle panchine poste ai lati della piazza. E io ero una di queste.
Quasi ogni giorno trascorrevo la pausa pranzo all’aperto, davanti a qualche monumento o statua o scorcio della città e con il carboncino cercavo di riprodurre sulla carta ciò che i miei occhi vedevano e il mio cuore sentiva; il disegno e la pittura erano la mia vita e avevo scelto Firenze per formarmi in queste arti. Quel giorno avevo scelto un punto particolare della piazza, quello in fondo a sinistra guardando la chiesa.
Stavo tracciando le linee prospettiche della veduta quando sono stata colpita dalla figura di una donna che usciva da un portone. Sono rimasta a fissarla. Ho osservato il modo in cui si è tirata dietro il portone e il modo in cui ha inserito la chiave e l’ha girata nella serratura. E poi il suo voltarsi verso la piazza e lo sguardo che ha gettato rapido, come ad assicurarsi che tutto fosse in ordine, che tutto fosse come sempre. E poi il suo dirigersi verso l’edicola collocata in un angolo estremo della piazza, quello che si affaccia sulla via Giuseppe Verdi.
La sua attenzione rivolta alle riviste esposte come carte spalmate, il suo modo di estrarne prima una poi un’altra e il suo modo di pagare l’edicolante; ha disteso un biglietto da dieci euro e tenendolo per un angolo lo ha consegnato all’uomo come fosse un messaggio prezioso, il sigillo di uno scambio, in una città che nel passato fu all’apice degli scambi commerciali; sicuramente è una fiorentina da generazioni, poiché certi gesti lasciano traccia nel codice genetico ed emergono in tutta la loro carica simbolica anche dopo centinaia di anni. E così ho compreso anche il suo modo di tornare subito a casa e scomparire nell’edificio, in fretta, senza perdere tempo. Avevo osservato quella scena come ipnotizzata; la matita penzolava dalla mia mano inerme, tutto si era sospeso in quei cinque minuti nei quali tutto si era svolto. Quando mi sono ripresa mi sono sentita come stordita, come se avessi fatto un viaggio lontano, lontano dalla realtà nella quale mi trovavo, lontano da me stessa, e in quell’istante ho desiderato quella donna.
Ho continuato ad osservare le finestre dell’edificio sperando di scorgerne la sagoma mentre tirava le tende, ma i miei occhi non intravvedevano alcuna presenza umana dietro i vetri. E così sono stata sommersa da un senso di vuoto, di perdita, oserei dire. Mi sono fatta delle domande.
Chi è quella donna? Avrà una trentina d’anni, magra, capelli lunghi neri, indossa jeans e maglietta bianca, scarpe basse e due riviste prese all’edicola. Che tipo di vita fa?
Volevo sapere tutto di lei, volevo conoscerla, avrei voluto possederla, avrei voluto godere del dinamismo disordinato di un incontro casuale. Sentivo dentro di me un fuoco ardere, mi sentivo calda, molto più calda di quanto il sole stesso potesse riscaldarmi.
Ho ripreso saldamente la matita in mano e ho preso un foglio bianco. Ho tracciato la forma di quella donna, così come l’avevo vista nel primo istante, l’istante dell’incanto totale, di spalle davanti al portone con la mano che inseriva la chiave nella serratura. L’ho disegnata nuda, era inevitabile, lei, sola, nuda davanti a un portone, simbolo di chiusura o di apertura, dipende dalla prospettiva, simbolo di proprietà. Avrei voluto fosse mia, la donna, la sua casa, i suoi gesti. La volevo mia, tanto più quanto sapevo che non lo sarebbe mai stata; la nostra storia era durata un tempo brevissimo, tutto si era consumato tra un’apparizione e una scomparsa, lei oggetto ignaro e io soggetto cosciente. Il desiderio mi bruciava dentro, non riuscivo a contenerlo, ad occultarlo e a soffocarlo. Lo sentivo uscire attraverso i segni che tracciavo sul foglio e i miei occhi guardavano muti quelle linee sinuose che la mano disegnava come se realmente stesse percorrendo le curve del corpo di quella donna.
Mi sono sentita tremendamente eccitata, avrei voluto toccarmi, ma mi rendevo conto di essere in piazza e certe cose non si possono fare, certe cose devono rimanere nascoste agli occhi della gente, il desiderio va consumato da sole. Ho ripassato con la matita le linee del suo corpo, prima la curva delle spalle, dolce e morbida, una volta, due volte e immaginavo di far scorrere la mia mano su di esse; e poi, l’accenno di un seno, che emergeva dall’angolazione di 30° rispetto al piano, un seno piccolo che avevo ripassato con lentezza, disegnandone anche i dettagli dell’areola e del capezzolo e immaginavo di succhiarlo quel capezzolo facendolo diventare duro grazie all’opera della mia lingua; e poi giù, lungo la schiena. Ho ripassato più volte il sedere tanto che i bordi erano diventati di un nero intenso ed emergevano prepotentemente nell’insieme del disegno. Ho immaginato di tutto con quel sedere, lo sentivo tra le mani e sentivo le mie mani palparlo generosamente e aprirlo, ho immaginato il mio dito entrare nel buco proibito e di sentire il suo corpo fremere e agitarsi e girarsi verso di me e baciarmi, baciarmi a lungo, baciarmi a fondo e nude avremmo fatto l’amore, lì, davanti a quel portone, indifferenti a tutto a e a tutti e avremmo goduto fino allo sfinimento davanti agli occhi increduli della gente.
Uno scatto improvviso mi ha risvegliata da quel sogno erotico e ho provato vergogna in quella piazza che stava riprendendo lentamente i contorni nella mia mente e nel mio corpo. Mi sono guardata intorno per vedere chi ci fosse; ho visto una donna spingere un passeggino; due panchine più in là due ragazzi e una ragazza parlavano, altra gente davanti ai negozi valutavano la merce; davanti all’edicola un vecchio sfogliava un giornale; infine, una coppia di turisti fotografava la chiesa.
Ho riguardato il portone, poi ho riguardato il mio disegno e ho sorriso, era tutto così assurdo. L’irrazionalità è buffa ed è così democratica, mette le persone sullo stesso piano, il piano dell’istinto animale dove i confini scompaiono e le persone non sono più estranee; il piano in cui ci sono solo desideri, a volte separati da un portone.
Ho guardato di nuovo le finestre dell’edificio, lei era dietro una di queste, ma a me non era dato sapere quale e così mi sono arresa.