Pensate ad una cornice. Una cornice di ottima fattura, moderna, di un colore che raramente vi capiti di riuscire a trovare e, al centro, una bella foto, di quelle scattate in bianco e nero con una vasta gamma di chiaroscuri, niente di serioso però, una foto buffa scattata magistralmente. Dopo averla tenuta nel salotto per il tempo necessario ad apprezzarla, mantenete la cornice e cambiate la foto, stesso fotografo ma soggetto diverso. Riconoscerete la mano del fotografo, la stessa intenzione e la cornice vi darà un senso di continuità. Non c’è dubbio però che saranno pur sempre due foto distinte. Questo è esattamente il caso di “La gente che sta bene” sequel-non-sequel di “Studio illegale”. In questo secondo libro di Federico Baccomo Duchesne la sede materiale e ideale della storia è la stessa ma protagonista, premesse e sviluppo della trama seguono due strade completamente diverse. Il nuovo perno della storia è Giuseppe Sobreroni che, a differenza di Andrea Campi protagonista della prima fatica letteraria, è un essere insopportabile, un viscido antieroe presuntuoso e volgare. Lo stile e il linguaggio di questo secondo lavoro mantengono una cifra ironica e fresca malgrado la ripulsa nei confronti di Sobreroni, o forse ne sono proprio rafforzati, ci si aspetta un finale che poi non arriva eppure non lo si rimpiange, si detesta e poi si familiarizza con questa “gente che sta bene” e viene non solo da sorridere ma, evviva, da ghignare. Soldi e potere non possono tutto, per fortuna. Che fine hanno fatto concetti come etica e morale? Lo abbiamo chiesto a Federico Baccomo alias Duchesne, ora scrittore fu avvocato d’affari, lasciatemelo dire, la prova che il talento prima o poi paga, e non parlo di soldi! Per carità ben vengano gli sporchi danari, ma provate a chiedere al supermercato di acquistare un etto di integrità.
Nel tuo primo romanzo, “Studio illegale”, il protagonista Andrea Campi è un libero professionista sopraffatto dal lavoro, tuttavia ben retribuito e in ascesa, che mal tollerando le bassezze di cui è circondato, sceglie di mollare la professione. In un momento di crisi e di difficoltà lavorative, il suggerimento di lanciarsi nel vuoto, di avere un atteggiamento, come direbbe qualcuno, “choosy” è ancora valido?
C’è una frase di Primo Levi che dice, sintetizzo, che la migliore approssimazione alla felicità sulla terra è l’amare il proprio lavoro. Che poi è quello che vuol dire la Costituzione, all’articolo 1, quando dice che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro. Il valore del lavoro sta nella sua funzione di mezzo per realizzarsi. Oggi il valore del lavoro, soprattutto nelle parole di chi usa termini a vanvera come “choosy”, sembra essere semplicemente averlo. E magari dire pure grazie. Io questa logica non mi sento di sposarla. È vero che alle volte tocca piegarsi alle circostanze, e oggi non sono esattamente le più clementi, ma mi pare che per stare in vita sia necessario perlomeno continuare a sperare che venga il momento di lanciarsi non tanto nel vuoto, ma in qualcosa, per tornare alle parole di Levi, che si ama.
Il protagonista di “Studio illegale” nell’adattamento cinematografico perde molte delle sue caratteristiche, prima fra tutte la sua età che nel libro era nella famigerata generazione di mezzo dei trentenni. Quanto hai potuto interferire nelle decisioni che hanno portato alla scelta di un quarantenne, Fabio Volo, come protagonista o a cambiare la nazionalità di Emily?
La cessione dei diritti cinematografici comporta una delega alla produzione di ogni tipo di scelta artistica e produttiva. La storia cessa di essere dell’autore, e passa nelle mani degli acquirenti. Ed è giusto che sia così, un film costa parecchi soldi, chi li mette ha il diritto di poter scegliere cosa rappresentare e come farlo. Io poi non sono geloso dei miei libri, vedo i due mezzi – letteratura e cinema – come due mondi contigui ma ben distinti, e l’idea che un film prenda la sua strada, tiri fuori nuovi occhi, a me pare un arricchimento, più che un tradimento, della sua fonte originaria. Nello specifico, ad esempio, il fatto che sia un quarantenne, e non un trentenne, a giocarsi la sua ultima carta è un’idea paradossalmente più efficace. A trent’anni ci sono speranze che molto spesso a quaranta sono andate perdute. E l’idea che un uomo con un passato professionale ormai stratificato possa scartare e dare una svolta alla propria vita rende la scelta del protagonista ancora più significativa.
Studio illegale è un ciclo chiuso o ritieni che possa ancora offrirti spunti per storie e personaggi per prossimi romanzi?
Per quanto mi riguarda è una storia chiusa. Mi piace l’idea che il protagonista faccia la sua strada, senza che io vada a immischiarmi nelle sue faccende. Poi spunti e personaggi, in sé, non mancano mai. Per gioco, m’è capitato di pensare a cosa avrei potuto inventarmi per un seguito, e in pochi minuti avevo già un paio di trame pronte. Ma resteranno lì, in quelle riflessioni da bicicletta.
Il protagonista di “La gente che sta bene” è lo specchio di una società dove successo è sinonimo di soldi e potere: durante la lettura, Giuseppe Sobreroni non diventa mai simpatico, malgrado si rida spesso e di gusto, e nei suoi confronti si prova solo molta pena. C’era da parte tua un intento etico-moraleggiante?
Direi di no, anche se poi sono il primo a vederci un certo moralismo (e confesso che non mi dispiace). La verità è che Giuseppe era il personaggio di Studio Illegale che amavo di più. Era solo una macchietta, del tutto piatta, filtrata dagli occhi del protagonista. Ma avevo la sensazione che, a starci un po’ dietro, se ne poteva tirare fuori qualcosa di reale. E oggi posso dire che è il personaggio più bello che sia mai uscito dalla mia tastiera, mi fa ridere e mi commuove, ha una voce che non credo troverò mai più. È un eroe negativo, è innegabile, ma – questo forse lo vedo solo io – è il personaggio più umano di cui abbia raccontato.
Due libri, un film nelle sale e uno in arrivo. Sappiamo che hai in preparazione un nuovo progetto, in una recente intervista hai detto che il tema sarà quello della perdita della fama. Visto il successo dei precedenti, soffri di “ansia da prestazione letteraria” ?
In realtà no. Provo anch’io i famosi tormenti da “scrittore”, quando stai ore su una pagina che non viene, su una frase che non gira, una battuta che non si chiude. Ma questo, in fondo, è comune a chiunque cerchi di far bene qualcosa, che sia montare un Aspelund dell’Ikea o preparare un risotto ai funghi. Poi, però, a me prende qualcosa di contrario all’ansia. Passati i vari scoramenti comincio a dirmi: “Ma guarda te che bella questa frase, e quanto fa ridere questa battuta, e quanto è tridimensionale questo personaggio”, e lì è un passo che finisco per dirmi: “Oh, qui siamo di fronte a un capolavoro”. Per il nuovo libro non sono nemmeno a metà e me lo sono detto già una ventina di volte.
A quale tipo di lettore pensi siano rivolti i tuoi libri? E tu stesso che tipo di lettore sei?
Lo si dice spesso, per cui non sarò originale, ma io scrivo esattamente quello che mi piacerebbe leggere. E la speranza è trovare lettori che condividano le stesse corde. Mi piacciono i temi forti, anche tragici, ma mi piace andarci addosso con l’ironia, se riesco anche con la comicità. E mi piace l’idea che uno possa guardare l’orologio e dire: “Dio mio, son le tre, domattina alle otto sono dal dentista, ancora due pagine e chiudo.” Ché vanno bene tutte le speculazioni letterarie, le approfondite analisi tematiche, i messaggi e i contenuti, ma alla fine conta solo dare un pochetto di piacere a 17 euro in brossura, 12 il tascabile.