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Ci sono cose che ti seguono per tutta la vita. A volte sono semplici voci, ascoltate in momenti lontanissimi e ormai insignificanti, che si fanno eco lungo gli anni e non smettono mai di respirare.
«Non siate egoisti. Mai! Passate sempre la palla a chi si trova in una posizione migliore della vostra» diceva il Mister, «non siate egoisti».
Ed io capii il mio ruolo: playmaker.
Gioco a basket dall’età di sette anni, quando presi la fissa di riuscire a far girare il pallone sull’indice. Imparai qualche lustro più tardi, quando giocavo abitualmente, sempre e soltanto sulla strada. Nel fango, col freddo, sotto la pioggia o il sole cocente; quattro, cinque, sei ore di fila a saltare, dribblare, tirare e passare. La mia squadra era sempre la stessa: veterana padrona del campo. Ragazzi neri alti tremmetri, ex-cestisti di professione ormai decaduti, camerieri in pausa-pranzo che non giocavano da decenni, chiunque c’incrociasse sul campetto finiva col prendere una batosta.
L’abitudine, però, sfumò con la stessa inesorabile languidezza con cui scompaiono gli amici. Non gioco spesso, oggi. Ma ad ogni cartaccia da gettare nel cestino, la mano ricorda quello stesso prurito di una palla che brucia sulla linea da tre.
Solo cotone.