la giostra finì quando uno degli uomini della carne si trasformò all’improvviso in qualcos’altro.
mi tirò fuori dalla macchina, e dire che quella volta proprio non volevo scendere. percepisco sempre il pericolo, come un animale. ma non so evitarlo.
mi guardò come se fossi un regalo di compleanno, mi baciò con gli occhi chiusi, poi sollevò lo sguardo al cielo e ringraziò dio. fu divertente, gentile. mi prese per mano e mi portò a casa sua.
capii subito che era la casa di uno come me, uno che mangia sempre dopo aver fatto l’amore, che mangia sempre cose diverse, in case diverse. era come me. ne fui immediatamente gelosa.
la casa era piuttosto una mansarda su due livelli, piena di polvere e dischi e foglietti attaccati al muro con numeri di telefono e messaggi. c’erano borse piene a metà e vecchi biglietti d’aereo sui ripiani. ma soprattutto era una casa piena di foto. era il suo mestiere, comprava foto per le grandi agenzie di stampa, girava il mondo per comprarle. ancora non era arrivato ad accorciare le distanze, a bloccarci dentro le nostre case. qualche volta le faceva anche, le foto, ma non era bravo. aveva un paio di chitarre, ma non le sapeva suonare. e così per la pittura: c’erano tele di piccolo taglio, sparse in giro e dipinte a metà con scarsi risultati, con i colori sbagliati. non aveva nessun talento, tranne che a letto.
tutto ciò di cui la vita gli aveva fatto dono era concentrato dal tramonto all’alba, sotto alle lenzuola.
la prima volta mi tolse tutto fuorché la pelle, mi tenne sveglia fino all’alba, poi si alzò dal letto, completamente nudo, si infilò un paio di stivali e scese in cucina.
salì dopo un po’ con un piatto di pasta al pomodoro. spaghettini, quelli piccoli che si danno ai bambini e ai malati. col pomodoro fresco e un po’ di scalogno e basilico. poco pepe, formaggio a parte. un piatto semplice e intimo e familiare come la notte di natale. mangiai di gusto, e lo guardai addormentarsi, poi girai per la casa cercando una risposta. per la prima volta nella mia vita non frugai in cucina.
mi parve un miracolo.
aveva capito che avevo fame? o era solo stato gentile? sapeva che non potevo dormire?
nel dubbio, restai a casa sua diversi anni. arrivavo la sera, me ne andavo al mattino.
e smisi di mangiare carne. per sempre. non mi apparteneva più.
io invece appartenevo a lui.
non uscivamo quasi mai. non avevamo nulla in comune, fuori da quella casa.
era un funambolo. era libero. un amante da circo. non c’erano cose vietate, per lui, proibite, sbagliate. si divertiva. non era mai uguale a se stesso, e anche io mi sentivo sempre diversa, di riflesso, di conseguenza. imparai come si dice di si, sempre di si. imparai delle scorciatoie, qualche trucco da prestigiatore, imparai una parte della mia bellezza: che il mio corpo sotto ad una certa luce flebile sembra un altare pagano. cominciai a piacermi, cominciai a capire perché e che cosa del mio corpo potesse essere tanto interessante per un altro essere umano. feci un corso accelerato sulla natura maschile. mi insegnò come si chiede e come si offre. come ci si sporca per poi lavarsi a vicenda, dolcemente. come ci si fa del male per poi consolarsi. scopavo.
mi regalò una camicia da notte nera come il peccato. la portavo sempre, ogni notte che passavo con lui, qualche mattina la lavavo e la rimettevo la sera. lui ne strappò qualche lembo, dopo qualche tempo era ormai mutilata, ma io mi sentivo bene, con quella addosso. mi sentivo un animale notturno. potevo dormire di giorno, nascosta, come una civetta.
la notte ero viva fino alle cinque, alle sei del mattino. poi mangiavo, e me andavo.
ogni notte mi cucinava qualcosa di diverso, ciclicamente. non cenavo più fuori, mangiavo solo con lui. imboccata, qualche volta. mi faceva le uova, spesso, la pasta più volte. la crema con la frutta dentro, le tortillas messicane: aveva girato mezzo mondo e sapeva fare un po’ di tutto. niente di eccezionale, ma mi andava bene così, sapevo che il suo talento era altrove.
il suo unico interesse era consumarmi in tutti i modi possibili, e forse mi nutriva proprio per questo. ma non mi consumai. ingrassai perfino qualche chilo, ma lui sembrò non farci caso.
a me sembrava un miracolo. non dormivo mai, ma almeno non mi alzavo più dal letto per andare in cucina.
no, la fame non mi era passata. però adesso c’era qualcuno che si occupava di me, solo di me, sempre di me.
era quasi perfetto. quasi, perché la fame comunque non passava. finché una notte, dopo aver fatto l’amore due o forse tre volte, lui si addormentò di botto e io rimasi digiuna, ed offesa. giurai a me stessa di fargliela pagare.
non avevo mai provato rancore per qualcuno al di fuori di me.
così mi alzai dal letto e puntai dritta verso il frigo. mi ricordo benissimo che c’era la luna perché il pavimento era di granito e luccicava come il sentiero di pollicino. mi portava dritta verso il frigo. lo aprii: c’era una confezione di fragole, semiaperta.
io sono allergica alle fragole.
lui era allergico alle fragole.
era una delle poche cose che avevamo in comune fuori dal letto.
qualcuno oltre noi due aveva accesso a quel frigorifero, qualcuno aveva meritato attenzione, tempo, i soldi della spesa. la confezione era aperta e a metà. qualcuno aveva mangiato dalle sue mani qualcosa che nemmeno lui poteva mangiare. mi sentivo male. mi venne voglia di finire le fragole e correre all’ospedale. ma sapevo che i sensi di colpa non abitavano lì.
quella casa, quel letto e quell’uomo di notte erano miei, ma evidentemente di giorno era tutta un’altra storia. guardai con più attenzione, un’attenzione che non avevo mai avuto.
nel lavandino c’erano bicchieri spaiati, su uno c’era del rossetto di un colore dozzinale. ero incazzatissima: se almeno fosse stato un rossetto costoso.
alcune sigarette erano spente in un piattino. lui non fumava e non erano le mie. io non l’avrei mai fatto: spegnere le sigarette in un posto tanto prezioso come un piatto. mi urtava la banalità della situazione. mi misi sul divano e aspettai che si svegliasse per chiedere spiegazioni, dargli un pugno, sputargli in faccia, rompere un bicchiere ai suoi piedi.
ma poi le ore passarono e io persi la concentrazione: non sapevo più perché mi trovavo lì, che cosa dovevo fare. appena lo sentii muoversi nel letto, alle prime luci dell’alba – la luna era morta – mi infilai il vestito e me ne andai con le scarpe in mano, ripromettendomi di metterle giù al portone. ma arrivai fino alla macchina, e guidai con i piedi nudi fino a un piccolo bar tabacchi di periferia, dove scalza ordinai un cappuccino e un cornetto. e poi un altro cornetto. e poi un altro cornetto.
mi cercò per settimane. mi regalò un anello, mi diede spiegazioni che non volevo più.
perse tutto il suo talento, ai miei occhi.
ci andai a letto un’altra volta sola, ma rimasi fredda come l’inverno che avevo dentro, solo per fargli dispetto.