Alzarsi di mattina presto, prendere carta e penna, cominciare a scrivere. Due ore. Uscire, controllare la posta, andare a far colazione da amici. Rientrare, leggere i giornali, dei romanzi. Sbirciamo nella routine quotidiana di alcuni dei più grandi autori del ‘900.
Nella vita dei grandi scrittori, da Ray Bradbury a Jack Kerouac, da Simone de Beauvoir a Ernest Hemingway, passando per Henry Miller e Joan Didion, i piccoli gesti e le abitudini quotidiani scandiscono i momenti d’ispirazione e quelli compositivi. Ognuno di loro ha un posto preferito dove scrivere, un preciso momento del giorno o della notte, dopo pranzo o prima della colazione.
Leggendo le pagine dei loro diari, le interviste che hanno rilasciato, alcune lettere, ci si accorge di quanto l’atto compositivo non sia tanto frutto di un impulso o di un’ispirazione astratta e subitanea, quanto piuttosto un lavoro abitudinario e schematico, rigido e ripetitivo forse, quasi quanto quello di un’operaia o di un impiegato.
Ray Bradbury, che riusciva a scrivere ovunque, in salotto o in camera da letto, affermava che non si era mai dovuto preoccupare di programmare la sua giornata per portare avanti il suo lavoro di scrittura poiché, spiegava, “qualcosa di nuovo esplode sempre in me, ed è questo che pianifica la mia giornata […]. Mi dice: vai alla macchina da scrivere e finisci”. (The art of fiction, N. 203, The Paris Review).
Al contrario, Joan Didion seguiva una rigida routine. La sera, dopo cena e con un drink in mano, rileggeva quello che aveva scritto durante la giornata, riscrivendo pezzi e cancellando parole. Il giorno dopo ricominciava daccapo, avendo come riferimenti gli appunti e le revisioni della sera precedente. Quando lavorava preferiva non avere nessuno a cena, perché altrimenti avrebbe perso un’ora di tempo. Infine, quando stava per finire un libro, aveva bisogno di “dormire nella stessa stanza con lui”, questo perché “stranamente il libro non ti lascia sola quando gli dormi accanto” (The Art of Fiction, N. 71, The Paris Review).
Come lei anche Jack Kerouac aveva delle manie e anche delle superstizioni. Ad esempio era solito accendere sempre una candela prima di cominciare a scrivere e la spegneva quando finiva. Il suo posto preferito era ad una scrivania, vicino al letto, dove scriveva da mezzanotte fino all’alba. Spesso si inginocchiava per pregare che Dio gli conservasse la sua integrità mentale prima di poggiare la penna sulla carta. Quando Ted Berrigan gli chiese di una sua superstizione, Jack rispose semplicemente: “la luna piena e anche il numero nove”. (The Art of Fiction, N. 41, The Paris Review).
Henry Miller aveva una disciplina ferrea e una routine rigidissima. Aveva scritto addirittura undici comandamenti sul come, quando, quanto e dove scrivere. Fra questi, il più sorprendente, se si intende l’arte come frutto d’ispirazione impulsiva e sensoriale, era il comandamento numero 4: “lavora secondo il Programma e non secondo il tuo stato d’animo. Interrompi al momento stabilito”. A questo faceva eco il numero 5: “Quando non puoi creare allora puoi lavorare”. Una boccata d’aria fresca da questa stantia prigione di parole gliela concedeva il numero 7: “Resta umano! Incontra le persone, visita posti, bevi se ti va”, ed anche il 9: “Rompi le regole del Programma quando ti va, ma torna a seguirle l’indomani” (Henry Miller on Writing).
Simone de Beauvoir osservava una routine meno rigida, anche se preferiva lavorare dopo un tè al mattino e dalle dieci in poi e fino all’una del pomeriggio. Poi incontrava gli amici, si concedeva una pausa fra giornali e riviste e ricominciava a scrivere fino alle cinque. Anche lei, come Joan Didion, correggeva ciò che aveva scritto alla sera, un’abitudine indispensabile per continuare il giorno successivo poiché “per riprendere il filo devo leggere ciò che ho scritto” (The Art of Fiction, N. 35, The Paris Review).
Questo processo di revisione Ernest Hemingway, invece, lo faceva al mattino, poco dopo la prima luce dell’alba. Poteva continuare fino a mezzogiorno, o fermarsi anche prima. Si prendeva una pausa solo quando si sentiva “svuotato, ma allo stesso tempo pieno, come quando hai appena finito di fare l’amore con qualcuno che ami” (The Art of Fiction, N. 21, The Paris Review).