Al giorno d’oggi spesso si adopera il sostantivo “tuttologo”, la maggior parte delle volte con una punta d’ironia e sarcasmo, con l’intenzione di mettere in evidenza il carattere necessariamente parziale e relativo delle conoscenze di un essere umano. Tuttologi, probabilmente, non ci sono mai stati e non ci saranno mai. Ma se possiamo immaginare un uomo che abbia appena sfiorato tale concetto, questi è Leon Battista Alberti.
Scrittore, filosofo, musicista, linguista e grande architetto, l’Alberti è stata una delle personalità più poliedriche che l’Italia e l’Europa abbiano conosciuto. Umanista a tutto tondo, esprime in maniera cristallina il senso pieno di quel grande movimento che è stato l’Umanesimo italiano, anticamera del Rinascimento. Vissuto nel corso del XV secolo, Leon Battista Alberti riconosce alle arti il valore di compiuta espressione, ideale e concreta, dell’uomo, analizzando in modo analitico e lucido il rapporto tra uomo e mondo, virtù e fortuna – vero leitmotiv del suo pensiero e delle sua opera.
I Quattro libri della famiglia costituiscono probabilmente il lascito letterario più noto dello scrittore originario di Genova. Eppure hanno una storia curiosa e anomala: dopo una prima circolazione in forma manoscritta, infatti, essi rimangono praticamente sconosciuti fino al secolo XIX, quando esce la prima edizione a stampa. I primi tre libri vengono composti a Roma tra il 1433 e il 1434, mentre il quarto vede la sua definitiva stesura e conclusione a Firenze nel 1440. La lingua adoperata è il volgare, e questo non stupisce di certo: convinto assertore della dignità del volgare come autentica lingua di comunicazione, Leon Battista Alberti scrive con il fine di rivolgersi a tutti, ed è di fatto considerato il fondatore del cosiddetto Umanesimo volgare.
L’opera è formata da una serie di dialoghi tra diversi membri della famiglia Alberti, al centro dei quali vi è l’organizzazione e la conduzione della vita familiare. La famiglia è qui vista come il principale nucleo della società, punto di riferimento assoluto e unico valore davvero saldo nel mondo: nell’ottica del suddetto rapporto tra virtù e fortuna – su cui tanto insiste l’Alberti – l’istituto della famiglia è appunto strumento di esercizio della virtù, unica arma contro l’azione capricciosa e imprevedibile della “fortuna”.
Onde non sanza cagione a me sempre parse da voler conoscere se mai tanto nelle cose umane possa la fortuna, e se a lei sia questa superchia licenza concessa, con sua instabilità e inconstanza porre in ruina le grandissime e prestantissime famiglie.
È questa una delle prime frasi. L’autore prende spunto da alcune disavventure politiche della sua famiglia, per dimostrare proprio come sia possibile osteggiare la volubile fortuna.
La critica non ha mancato di mettere in evidenza come in realtà l’Alberti non elabori una vera “scienza” della vita familiare: in preda ai tanti dubbi che assalgono a più riprese i protagonisti dei dialoghi, trionfa la tradizionale morale mercantile, basata su una saggezza semplice ed elementare e che vede i suoi pilastri essenzialmente nei concetti di “utile” e “pratico”. A tali fondamenti rimanda anche il libro IV, in cui si parla del valore del’amicizia, interpretata qui alla luce di una valore di tipo, appunto, essenzialmente pratico. Strumento di coesione sociale, essa diviene poi utile con principi e governanti.
Considerato un grande esempio della letteratura umanistica, i Quattro libri della famiglia evidenziano con spirito razionale le diverse posizioni che scaturiscono dal dibattito – come sempre accade nel genere del dialogo – su temi di indiscussa attualità, tra sguardo al futuro e difesa della tradizione: la vita familiare, l’educazione dei figli, la gestione economica della famiglia e, più in generale, la vita di relazione.