Una sera provammo a fare l’amore dopo tanto tempo. Fu un disastro.
Eravamo andati insieme a mangiare in un ristorante fuori città. In quei giorni eri particolarmente stressato: studiavi troppo e non potevi rifugiarti in un treno o su un aereo: nulla, se non giorni, settimane di abnegazione, sarebbe stato in grado di donarti le conoscenze necessarie di cui avevi bisogno per terminare l’ultimo esame, prima della laurea. Un viaggio ti avrebbe donato solo ricordi.
Eri quindi obbligato alla stabilità, chinato su un tavolo a sottolineare libri dalle pagine ingiallite, polverosi.
Sulla tavola imbandita, le tue mani spezzavano il pane. Affondavi i pollici nel centro della pagnotta e facevi pressione. Tante briciole finirono sulla tovaglia ed un rumore simile a quello dei rami che si spezzano sotto la scarpa di qualcuno avvolgeva il mio ruminio.
Mangiavi con appetito, conservando la tua postura pretenziosa. Molte donne, dirigendosi verso il buffet, lanciavano fugaci occhiate verso il nostro tavolo. Guardavano te, presenza magnetica: avevi la capacità di attirare l’attenzione altrui con discrezione. Sapevi proporre il tuo fascino anche senza aprir bocca – non t’imponevi.
Di ritorno a casa, stanchi, con il riverbero dell’aria frizzante della sera che ancora ci accarezzava il viso, ci infilammo a letto senza nemmeno sciacquare i nostri corpi intrisi di aria fritta e fumo di sigaretta.
Accadde in estate e quella era una serata in cui faceva un caldo torrido. Le serrande della tua stanza erano abbassate ed il copriletto sembrava ricoperto di una lastra di ghiaccio, tanto era freddo.
Ci eravamo infilati sotto le coperte. Tu eri girato su di un fianco, mentre io con la guancia appoggiata sulla tua scapola sinistra stavo in balia dei tuoi respiri.
Ti chiamavo e ti scuotevo leggermente di tanto in tanto: non volevo svegliarti, ma solamente dirti che c’ero. Con discrezione – e con un sottile strato di paura che copriva il mio volto nascosto dal buio – poggiai una mano sulla tua schiena. E leggermente ti trassi a me, come fa un genitore con il proprio bambino che sta per inciampare da un marciapiede.
Emettesti un respiro lungo, fiacco.
Con un movimento rapido ed avventato mi afferrasti per le spalle e strattonandomi con violenza mi ordinasti di spogliarmi. Come un automa mi levai la maglia del pigiama ed i pantaloni, che caddero silenziosamente sulla moquette. C’era da domandarsi se anche un fiocco di neve sarebbe stato in grado di annullare il suo impercettibile, leggerissimo peso su di una superficie così nera, perdendo il suo inviolabile candore.
Il silenzio, il fruscio delle lenzuola che all’improvviso si arrotolano, la tua bocca che si aggancia al mio collo, succhiandolo avidamente… Era una scena che mi commosse molto: sembrava di provare una fitta di dolore e di rendersi conto solo in quel momento di essere un corpo vivo.
Ridevi forte, per nessun motivo. Io a cavalcioni su di te facevo fatica a reprimere le tue risa, che sembravano quasi di sdegno, cariche di crudeltà. Le tue mani percorrevano il mio corpo come un itinerante annoiato: i tuoi gesti erano prevedibili. Prima le gambe, poi la schiena, passando per il collo e – dopo un mio sussulto – i capelli, scombinandomeli un poco.
Quei tocchi privi di significato, vuoti, rendevano l’atmosfera particolarmente pesante. Come trovarsi in una stanza affollata, veniva da urlare aiuto.
Non avevo immaginato nulla di simile.
Ad occhi chiusi andavo a cercare la tua bocca che non mordicchiava i lobi delle mie orecchie, ma anzi, armata di un retrogusto amarognolo, serpeggiava sul mio corpo, modellandolo. I lineamenti del mio viso si ammorbidivano, gli angoli della mia anima si smussavano: nonostante la tensione che si avvertiva nell’aria riuscivo ad alimentare la fiammella del mio entusiasmo: in fondo eravamo noi due soli, che altro poteva essere più importante?
Ero il tuo manichino: mi vestivo dei tuoi baci.
Il mio torace si contorceva tutto, nel tentativo di trovare una posizione adatta alla nostra unione.
Il tuo membro eretto pulsava come un cuore impazzito e per un istante dimenticai tutto. Mi dissi: è giunta l’ora, ci stiamo unendo.
Chiusi gli occhi fino a sentire male, mi morsi il labbro inferiore come a volerlo salvare da una tempesta di vento improvvisa.
Aspettai. Fremevo, agognavo la sensazione di appartenenza che seguiva il momento in cui entravi dentro di me, bloccandomi le braccia.
Immobili, come il tuo corpo addormentato sopra il mio, quegli attimi di pura estasi erano intrappolati in una campana di vetro, che lentamente si frantumava.
Fuori, la luna gridava la sua solitudine.
E noi ci addormentammo così: io, con il cuore sospeso in un’illusione – che ardeva di desiderio – e tu avvolto da un sonno appena disceso sul tuo corpo, che non aveva ancora imparato ad amare e già era stanco di farlo.