Occhi nuovi,
attoniti – che guardano
come una stampa colorata il mondo;
occhi colore d’aria,
anticipi di cielo sulla terra
– il dolore v’è l’ombra d’una rondine,
un’acquata di primavera, il pianto –
occhi cui non ardiscono guardare
altri occhi:
occhi soli
come orfani a mano per la via;
tetri come lo specchio
della camera ad ore che patì
la ripugnanza d’infiniti volti;
occhi che nessun piangere più lava;
occhi come pozzanghere, miei occhi.
Camillo Sbarbaro ( da “Rimanenze”)
La poesia che oggi vi propongo racconta, nello stile raffinatissimo del poeta ligure Camillo Sbarbaro, la storia di una discrepanza tra interiorità ed esteriorità, tema utilizzato ampiamente da numerosissimi autori, ma reso elegante e quasi innovativo con la maestria di un’analisi minuziosa degli occhi del poeta, o forse dei nostri.
Questi occhi inizialmente sono parte di un paesaggio naturale che, per la scelta delle parole utilizzate, appare distaccato da faccende umane, come fosse un’opera che non ci compete. Persino i più piccoli gesti o le più piccole espressioni dei nostri occhi vengono paragonate ad un mondo esterno a noi, come se il nostro pianto non fosse sintomo di movimenti intimi, ma fosse segnale di una stagione di rinascita, quale la primavera. Questa parte, a mio avviso, può anche essere intesa in senso contrario, così da rendere il volo di una rondine un fenomeno equiparabile ai nostri dolori, tale da trasformare ciò che siamo in qualcosa di unico, nonostante sia di nostra competenza.
Il dolore appare quindi come qualcosa d’inevitabile in entrambi i casi, in quanto il poeta sembra riconoscere nello sguardo l’incapacità di mentire, di fingere o di essere controllato, come è incontrollabile il passare del tempo e delle stagioni.
“Occhi nuovi”, occhi che quindi appaiono reduci da impulsi istintivi, propri di ciascuno di noi, quali il pianto o il riso e che osservano il mondo con il distacco del rinnovamento.
Grazie alle immagini suggestive che il poeta ci propone comunque in numerose sue poesie, è nostra l’opportunità di interpretare le ricercate parole che ci offre in modo comunque comprensibile.
Nella seconda parte della poesia (divisa in due parti secondo una mia visione da lettrice che non voglio comunque imporre) affiora una vena di malinconia, che giustifica il ricorso ad alcuni termini scelti nei versi precedenti. Il termine “tetri” può, infatti, far pensare ad un passato che non ci è stato raccontato, come se la poesia fosse un estratto della storia di una vita che si riassume tramite gli “infiniti volti” a cui Sbarbaro accenna, per giustificare il senso di terrore e di solitudine che affiora nei suoi ultimi versi.
Ad ogni modo, grazie alla sua essenziale visionarietà e selezionata retorica, il suo intimo, amaro e solo che sia, torna ad essere paragonato al mondo esterno, con l’immagine della pozzanghera per indicare un mare immobile, bagnato da tempo e pieno di un’acqua ormai infangata che aspetta il sole per asciugarsi.
Costanza Lindi