Avevano entrambi sei anni e già sapevano cosa fosse l’amicizia. Lo sapevano più dei loro genitori, delle madri figlie della violenza e dei soprusi, dei padri despoti e aggressivi.
Giada stava andando nella stalla a dare da mangiare agli animali, un compito che sentiva suo, che ormai svolgeva da quasi due anni. Vide Lorenzo nascosto dietro una palla di fieno, gli occhi turbati, la pelle sporca e piena di tagli. Quelle manine piccole che si tenevano sul fieno dorato, che non mollavano, che forse volevano staccarsi e afferrare quelle della bambina ma meglio non rischiare. Lei gli si avvicinò, con passo lento e misurato, facendo tanti respiri, inghiottendo l’aria che puzzava di escrementi e bestiame.
Si presero la mano: lei gli diede la sua senza paura, lui con riluttanza l’afferrò. Che ci fai qui, domandò Giada guardandosi attorno, perché quel bambino sembrava non parlare, aveva gli occhi spaventati, il respiro pesante.
Giada scorse dei lividi sulle braccia dell’amico, delle croste sulle ginocchia. Quel bambino aveva bisogno di lei.
Lorenzo tornava sempre in quella stalla nauseabonda, tutti i giorni. Faceva quel che poteva per contraccambiare in silenzio l’amicizia della bambina: spazzava a terra, dava da mangiare alle mucche, raccoglieva in piccole montagnole il fieno…
Il loro rapporto era scandito dal movimento e dal silenzio, dalle strette di mano e gli abbracci nei giorni di pioggia, quando l’odore del fieno si faceva pungente, le mucche muggivano ed i cavalli scalciavano. Incominciarono ad amarsi di un amore pulito, a piangere l’uno sulla spalla dell’altra. Lei gli raccontava le favole per farlo addormentare come una mamma premurosa, e Lorenzo si adagiava sul pavimento sporco e incominciava a dormire un sonno giusto e profondo.
Gli portava la colazione la mattina, qualche avanzo del pranzo per la merenda, si prendeva cura di lui come un’amica, una sorella, una balia. E lui le era molto riconoscente, ma parlare proprio no, non ce la faceva. Gli occhi gli si arrossavano, Lorenzo ci soffriva, odiava il suo mutismo, il passato che lo aveva reso così, un passato che però non ricordava, ne avvertiva solo la presenza, la pesantezza, l’orrore.
Una sera di primavera irruppe nella casa di Giada un uomo con la barba rossa ed un forcone in mano. Urlava che quella famiglia teneva nascosta in casa il suo bambino, che lo aveva visto correre da un po’ di tempo verso quella casa. “Se lo vedo, quel maledetto, lo ammazzo di botte! Torna sempre quando vuole! Vedremo se se ne andrà ancora via di casa, d’ora in avanti!”. Giada capì subito. Guardò la madre spaventata, il padre ingobbito, seduto al tavolo, con la forchetta a mezz’aria. Quell’uomo sembrava volesse fare del male ai suoi genitori, portarle via il suo amico. L’unico che aveva. Corse verso la stalla lasciando la porta di casa aperta, l’uomo indiavolato ancora a sbraitare contro i suoi poveri genitori.
Svegliò Lorenzo che dormiva a terra su un fianco, i suoi capelli ramati, la camicia consunta, i pantaloni tutti strappati: scappa, devi scappare, ti ha trovato, ha capito che sei qui, devi fuggire. Il bambino assonnato sorrise dolcemente, come avesse ignorato le parole, le premure, le lacrime dell’amica che lo pregavano, lo supplicavano a fuggire.
L’omone dalla barba rossa colse i due bambini in un abbraccio. Vide i capelli biondi della bambina, quei suoi occhi azzurri dolci da morire. E chissà che cosa scattò nella testa di quell’uomo, se forse il ricordo di una moglie amata e perduta o forse di un amore così disinteressato e a lui sconosciuto da procurargli dolore. Si avvicinò al figlio, alla bambina, a quel groviglio di baci e sorrisi e segreti e con uno spintone fece cadere a terra Lorenzo. Calci, pugni, sputi, insulti, ancora calci. Giada osservava spaventata e inerme la scena che le si parava davanti agli occhi e non seppe capire se ci fosse più dolore nelle lacrime silenziose dell’amico o nella rabbia urlata e nella violenza del padre.
In mezzo a quel frastuono, agli animali che si agitavano, ai colpi dei calci assestati nella pancia di Lorenzo, Giada sentì l’amico, l’amore della sua vita urlare, chiedere aiuto. Sentì la sua voce, quella che non era mai uscita nei momenti di tenerezza, quella che rimaneva bloccata in gola e che il bambino cercava di fare uscire per mezzo di gesti, sorrisi, abbracci.
Ma questa se ne andò subito, risucchiata dalla morte. Il tempo di diventare un piccolo ricordo, o forse un’allucinazione. Questo Giada non riuscì mai a saperlo.