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Londra e Berlino: a-spazialità a confronto in Thomas De Quincey e Joseph Roth

Siamo in una Londra di metà Ottocento. Periferie affollate di miseria e buio fanno da contraltare ad una City opulenta e scintillante. Fra le sue strade, mendicanti, nobili, operai, borghesi si muovono in un turbinio di suoni, odori, allucinazioni. Le stesse di Thomas De Quincey, che si aggira fra i quartieri londinesi di Soho e Piccadilly, fra Oxford Street e il Covent Garden. Le sue Confessioni di un oppiomane sono un racconto topografico di Londra in cui “il senso dello spazio, e alla fine il senso del tempo, sono profondamente compromessi… lo spazio si dilata, e si amplifica fino ad un infinito indicibile e ripetitivo”. Sotto l’effetto dell’oppio, De Quincey esplora una “terra incognita”, uno spazio vuoto, “buio, infinito… l’abisso di Londra”. La capitale inglese sembra un labirinto in cui è molto semplice entrare ma è impossibile uscirne, e in cui si è soli. Nei suoi Appunti autobiografici (Autobiographic Sketches, A Nonfiction Book), De Quincey spiega come, una volta entrati a Londra, “si diventa consapevoli del fatto che non si è più notati: nessuno ti vede; nessuno ti sente; nessuno ha cura di te; neanche tu hai più cura di te stesso”. Chi si trova a camminare per Berwick Street, Golden Square, Swallow Street, al Carnaby Market “è mortificato, forse terrificato, da un senso di isolamento e solitudine che è proprio di questa condizione. Nessuna solitudine può essere paragonata a quella che grava su un cuore in mezzo a una miriade di volti che non gli parlano; di occhi senza riflessi di luce che egli possa comprendere; […] di figure in fuga, di uomini e donne, […] senza un apparente motivo, […] più simili a maniaci o fantasmi”.

Sensazioni simili le prova Joseph Roth, “uno che va a passeggio, […] un musone fuori posto” per le strade di Berlino fra gli anni ’20 e ‘30. Quello che descrive in A passeggio per Berlino è una città rifugio di profughi ebrei, russi, turchi, armeni, greci. Ognuno estraneo all’altro, fuori posto, assente. I senza patria si muovono per la Nurnberger Strasse, e “forse non sanno che qualche passo più avanti ci sono altri esseri umani seduti, anch’esse persone in esilio, o perlomeno in un paese straniero, […] che mai riusciranno a lasciarsi alle spalle la loro patria […] poiché la loro patria se la portano sulla schiena, in eterno, come le chiocciole le loro casine”. Il tessuto umano e urbano descritto somiglia troppo a quello di una moderna metropoli, dove “c’è sempre un’invisibile, impenetrabile atmosfera di estraneità tra loro e il mondo esterno. Non si accorgono più che i loro gesti e le loro giornate, i loro sogni e le notti sono immersi nel frastuono”. Per la natura, allora come oggi, non c’e’ più spazio, “al suo posto, nei dintorni delle città, si diffonde il concetto di natura o la natura concettuale”. Oggi come allora, a Berlino, Roma, New York, Tokyo, “si mangia nelle palestre. […] si fa ginnastica in enormi acquari, […] ed è come se questa grossolana e uniformata industria del divertimento avesse anche prodotto in tutte le grandi città del mondo un modello uniforme di nottambulo con bisogni rigidamente omologati ed elementari, che vengono soddisfatti con poche semplici regole”. Parole scritte un secolo fa, eppure così sinistramente attuali. Comunione e comunanza di storie da raccontare, di atomi, monadi, da Roth rappresentati come cespugli di lillà: “talvolta un tragitto ferroviario urbano è piu’ istruttivo di un viaggio per mari e paesi lontani, e i viaggiatori esperti sapranno che in fondo basta vedere un unico cespuglio di lillà nascosto in un polveroso cortile di una grande città per comprendere l’assoluta, profonda tristezza dei cespugli di lillà di tutto il mondo”. Piante sradicate, snaturate, spostate… fuori posto.