Ghetto della droga e, per vivere di droga, il ghetto del rubare, del prostituirsi, dello spaccio. Una via verso la galera e poi, molto presto, verso la morte, quando ancora non sai cosa sia la vita.
Nel 1978 il settimanale tedesco Stern pubblica una serie di interviste fatte a una ragazza, Christiane Vera Felscherinow, accusata in un processo e condannata per detenzione di droga e prostituzione; il tutto partito da un’altra denuncia, a carico di un rappresentante di commercio accusato di frequentare giovani prostitute, tra le quali Christiane stessa. La giovane non viene poi condannata, dal momento che, all’epoca dei fatti, era minorenne. In seguito nasce il libro “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, un’autobiografia, confessione dolorosa di Christiane F. ( il cui cognome resta sconosciuto), della sua discesa negli inferi della droga.
Un documento atroce e non solo per la tematica della droga: il modo in cui viene raccontato, le cadute e le riprese della giovane che si “buca” per provare, ne diventa dipendente al punto da prostituirsi per avere altra droga, proprio lì fuori le mura di quello zoo di Berlino che sembra essere un’associazione perfetta e allo stesso tempo indecorosa della vita. I giovani in balia di se stessi, con la particolarità che, a differenza dell’istinto di sopravvivenza che accomuna gli animali e gli esseri tutti, in loro a prevalere è la voglia di evadere ed infine di morire. Christiane vuole morire perché per lei vivere non ha senso; non ne ha mai avuto, il trasferimento dalla tranquilla e familiare periferia alla Berlino di caos e cemento, la separazione dei genitori, un padre distante e una madre impegnata che si accorge del male che attanaglia la figlia quando ormai questa ne è dipendente, un amore tossico che cresce con le dosi di eroina.
Adesso mia madre mi controllava ogni sera le braccia per vedere se c’erano segni di punture fresche. Mi bucavo quindi nella mano, sempre nel medesimo punto. Mi era venuta una macchia scura di crosta. A mia madre raccontai che era una ferita che si rimarginava con difficoltà. Ma a un certo punto mia madre capì che era una puntura fresca. Dissi: “si, chiaro, oggi l’ho fatto una volta. Lo faccio solo raramente. Non fa per niente male.” Mia madre mi picchiò di santa ragione. Non mi difesi. Non mi faceva più nessun effetto. Lei comunque mi trattava come l’ultimo pezzo di merda e ad ogni occasione mi mandava in paranoia. Istintivamente faceva una cosa giusta. Perché un bucomane, prima di essere veramente disposto a cambiare qualcosa, deve non volerne sapere assolutamente più niente della merda e della porcheria. Allora si uccide, oppure utilizza l’ultimo filo di possibilità per venire fuori dall’ero. Ma allora idee di questo tipo non ce le avevo per niente.
Il racconto diventa una calamita per il lettore: la scrittura è tanto profonda e spontanea da far si che chi legge ben presto si identifichi con la protagonista, si immerga nel suo mondo, si deprima delle sue cadute, si rianimi delle sue riprese; la curiosità di Christiane verso il nuovo affascina il lettore che prova quello stesso entusiasmo, così come la malinconia di un paesaggio familiare e lo smarrimento di fronte a una città troppo grande per non perdersi. Si fa tesoro delle sue esperienze, dettagliate descrizioni del come ” ci si fa una pera” e dei postumi “dell’andare a rota”della ragazza in maniera così dettagliata da sembrare di conoscerla davvero, di esserle vicini nei momenti più cupi e in quelli dove sembra intravedersi un miglioramento.
Leggere “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” non è semplice: è una lettura che scuote, che disarma, che fa vivere da dentro questo mondo di dosi e di astinenze, senza nessun filtro se non quello della speranza lontana di un recupero di Christiane.