Tanto si è discusso su quello che è stato considerato un vero e proprio “caso” letterario: le Epistolae di Dante.
La loro autenticità è stata messa in dubbio da una serie di studiosi, i quali hanno sollevato dubbi circa la paternità dell’opera a causa di alcune affermazioni riguardo l’interpretazione della Divina Commedia – affermazioni presenti nell’ultima epistola, indirizzata a Cangrande della Scala, contenenti importanti indicazioni sulla lettura del Paradiso e sull’esegesi della Commedia tutta. Oggi, l’orientamento prevalente della critica tende a riconoscere l’autenticità dell’opera, nonchè la paternità dantesca. Chiaro gli studiosi non si risparmino su un’opera attribuita alla penna del Sommo Poeta.
Ma cosa sono precisamente queste Epistolae, perchè sono state scritte e quali argomenti trattano?
Si tratta varie lettere in latino, di cui tredici sono giunte a noi, e vengono composte da Dante per iniziativa personale o per conto di alcuni signori che lo ospitano alla loro corte negli anni dell’esilio – ed è a questi anni che risale la loro composizione. I destinatari sono reali o fittizi, e questo trova la sua spiegazione nel fatto che l’autore ha concepito queste lettere in vista di una loro pubblicazione. Non si tratta, dunque, di lettere spontanee; non mancano riferimenti a circostanze concrete e fatti quotidiani, ma l’estrema perizia nell’ars dictandi, lo sfoggio costante di figure retoriche e il grande virtuosismo tecnico – fatto soprattutto di citazioni e forme di latino arcaico e biblico – sono un chiaro indizio della destinazione finale che Dante aveva in mente per le sue missive.
Particolare interesse hanno sempre destato le lettere di contenuto politico, in particolare le tre risalenti al tempo della discesa di Arrigo VII. Come si sa, Il Sommo fu uno dei principali sostenitori dell’imperatore. L’epistola V, indirizzata ai popoli d’Italia e ai loro governatori e prìncipi, invita proprio a tralasciare gli interessi personali in virtù del bene comune, rappresentato in questo caso dall’accettazione dell’autorità suprema dell’Impero. L’epistola VI è rivolta esplicitamente ad un popolo, quello fiorentino: ai suoi concittadini Dante rivolge parole dure, presagendo la punizione divina e la rovina per chi, come Firenze, rifiuta la legge dell’imperatore. E poi c’è l’epistola VII che, datata 17 aprile 1311, chiama direttamente in causa Arrigo VII, invitato a non indugiare in azioni militari di scarso rilievo e a scendere in Italia, muovendo in particolare verso Firenze, paragonata ad una pecora immonda che corrompe l’intera penisola. Al 1314 risale invece l’epistola XI, rivolta ai cardinali riuniti in conclave per eleggere il successore di Clemente V, il quale aveva spostato la sede pontificia ad Avignone. A loro Dante chiede la scelta di un pontefice italiano, che liberi la Chiesa dalla corruzione e riporti la sede a Roma.
Terminiamo con la celebre epistola XIII, scritta per accompagnare l’invio e la dedica della terza cantica della Commedia – il Paradiso – a Cangrande della Scala, signore di Verona. In essa, Dante ci illumina circa la lettura del Paradiso e ci fornisce indicazione sull’interpretazione dell’opera – le sole che il Poeta ci abbia lasciato: distingue quattro sensi (letterale, allegorico, morale e anagogico) e precisa la differenza tra tragedia e commedia, che comporta naturalmente una scelta stilistica (quello della commedia è remissus et humilis, dimesso e umile, perchè si rivolge a tutti ed ha come fine la salvezza dell’uomo).