Holcomb, Kan., Nov. 15 [1959].
«Un ricco coltivatore di grano, sua moglie e i loro due bambini sono stati ritrovati morti questa mattina, nella loro casa. Sono stati uccisi da un colpo di pistola sparato a distanza ravvicinata dopo essere stati legati e imbavagliati(..) Non vi erano segni di lotta, e niente è stato rubato. La linea telefonica è stata tagliata.»
The New York Times.
Sei anni della sua vita. Il Kansas, così lontano dal frenetico ciarlare newyorkese.
Lontana la vita mondana che accompagna il chiacchiericcio delle donne dell’alta società, quella “da bere”, in cui una battuta sferzante vale più di una medaglia d’onore, e il segreto che sussurri nell’orecchio di un eccentrico scrittore, può costarti più di una condanna a vent’anni di prigione.
Questi ricordi si annebbiano nel calore polveroso di una Holcomb lacerata dal silenzio, e una sola domanda rimbomba nella testa di Truman Capote, Perché?
Perché Perry Smith e Richard Hickock sterminano l’intera famiglia dei Clutter?
É sul “New York Times” che Capote legge per la prima volta le 300 parole che lo collegheranno in maniera indelebile a questo caso. Assetato dalla curiosa perversione, che solo la sensibilità di un abile scrittore può coltivare, Capote arriva fino in Kansas, accompagnato dall’inseparabile Harper Lee.
La sua carriera è ad una svolta, le voci che corrono nei suoi racconti sono sempre più riconducibili ai personaggi che lo circondano nella realtà newyorkese. La sua vita è legata al filo sottilmente frenetico dei salotti più in voga, e la proposta del “New Yorker”, la possibilità di pubblicare a puntate la storia di un omicidio così efferato, lo affascina.
Una famiglia ammirata da tutta la comunità, dei metodisti convinti che non si concedono vizi. L’unico neo, la depressione sistematica di Bonnie Clutter, nascosta come una vergogna dal marito Herb, che lascerà ogni responsabilità domestica sulle spalle della figlia Nancy. Poi la morte, improvvisa, ma soprattutto inspiegabile. Il cuscino dietro la testa del piccolo Kenyon, per farlo stare comodo prima di sparargli un colpo dritto in testa.
Chi ha commesso l’omicidio? Per quale motivo?
Lo sceriffo Dewey -lo sguardo spento di chi ha perso il sonno nel tentativo di rimettere insieme i pezzi di un puzzle senza senso- è sotto la doccia quando arriva la telefonata che lo informa della cattura di Dick e Perry. Sono loro gli assassini, colpevoli di aver ucciso a sangue freddo una famiglia senza alcuna ragione logica.
Capote riporta con una dettagliata, maniacale, precisione i fatti e gli interrogatori. La calma lucida che ha portato Perry Smith a tagliare con un colpo secco la gola di Herb Clutter. Perché lui, Perry, è un tipo così, estremamente calmo, intelligenza acuta, e neanche ti accorgi che d’un tratto i suoi occhi cambiano di colore, e la sua mente sadica prende il sopravvento. C’è qualcosa nella tranquillità terrorizzante di Perry, che attira ossessivamente Truman Capote, forse è la somiglianza con sé stesso ad inquietarlo. Tutti e due hanno un aspetto quasi ridicolo, Capote con la sua voce e il suo aspetto eccentrico, Perry, le gambe corte e i tratti indiani confusi da quel corpo così goffo.
L’ultimo capitolo della storia Capote lo pubblicherà proprio dopo l’esecuzione per impiccagione di Perry, e lo festeggerà con un esorcizzante ballo in maschera al Plaza Hotel. Si dice che sia stato proprio questo il fattore scatenante, la discesa verso il vuoto di Truman Capote. Quegli incontri con Perry Smith lo segnarono al punto che, dopo la sua esecuzione, lo scrittore si trovò in macchina, perso nel nulla, a piangere per ore.
“In Cold Blood” segna l’entrata, nella scena letteraria, di un nuovo genere di reportage. Accattivante, inquietante, e maneggiato con una cura, che solo i geni come Capote possono gestire.