Non manca niente.
Ci sono gli addobbi natalizi per tutta la casa, l’albero di Natale sbilenco, vecchissimo, che però ancora sta in piedi, si regge sul vaso di plastico e lancia bagliori rossi.
C’è il presepe con quasi tutte le statuine a terra, i Re Magi sono più di tre perché mia nonna ha il vizio di procurarmene una o due ogni anno che passa. E così siamo tutti noi seduti su questo tavolo e sei o sette Re Magi che vegliano il piccolo Gesù. Per poco non soffochiamo in questa sala da pranzo impregnata dell’odore della pasta e del tacchino e delle lenticchie.
Non cominciamo a mangiare, non ancora. Guardiamo tutti la porta in mezzo alle volute di fumo. C’è mio nonno che non regge più dalla fame, mia madre che da sotto il tavolo mi stringe la mano come a dire: arriverà, arriverà.
Ma io non so se davvero tu arriverai o no. Non so se sto ignorando la nostra fine, se forse concedo alle mie speranza una seconda possibilità, se il mio cuore è convinto che tu busserai alla porta e manderai al diavolo la mente che invece mi martella, mi assale con i suoi pensieri che sanno di fine e rottura.
Mi alzo, nervosa. Cammino su dei tacchi che non ho mai voluto indossare, ma mi fanno più bella e sicura, ho rinunciato alle Converse consunte. Vado in bagno, poi in camera da letto, non mi do pace. L’attesa mi snerva e la mia famiglia sta seduta immobile attorno alla tavola, attorno al cenone di Natale.
Sfioro la mia pancia con un tocco leggero, le dita racchiudono con delicatezza una vita che giorno per giorno si fa sempre più pesante. Manca poco, nostro figlio nascerà con la neve che scende dal cielo, appena uscirà dalla pancia lo avvolgerò con una sciarpa che ho appena finito di preparare. Mi sono data persino alla maglia.
“Iniziate a mangiare, lui arriverà”, dico, ma so che non lo farai. Sento il rumore delle posate sul piatto, plastica su plastica.
Mi siedo sul letto lentamente, respiro forte, il mio vestito rosso si gonfia, il rossetto incomincia a darmi fastidio. E’ questione di tempo, mi dico, e subito mi do della stupida.
Penso alla nostra rottura, l’ennesima litigata; alla porta che hai sbattuto, al quadro che si è staccato alla parete, un quadro vecchissimo, che non era nemmeno nostro. Ricordo l’ira nelle tue parole, i tuoi occhi feriti.
“Me ne vado!”
“Va bene, ma non tornare!”
“Ok, non tornerò!”
“Bene!”
“Perfetto!”
Abbiamo scelto scelto gli addobbi di Natale insieme, studiato al dettaglio il menu della cena. Hai persino comprato le costruzioni a Nicola, anche se lo conosci poco, anche se non ti sopporta. Questa casa ormai sa di te, stiamo aspettando te. Se vieni siamo al completo, non è mai successo che persino papà avesse come giorno di riposo Natale.
Lo so che ritornerai, ma io vorrei entrassi in casa adesso. Vorrei ti sedessi a festeggiare il Natale. Anche se non ci crediamo, d’accordo.
Dal salone sento dire che la pasta è venuta bene, che il tacchino è squisito e per un attimo mi sento come staccata da questo mondo, in una stanza lontana.
E poi un suono un po’ più lontano. La porta di casa che si apre, per un attimo il silenzio di tutti i miei parenti, due o tre passi nell’entrata. Forse ti guardi attorno, non lo so.
Chiedi “Dov’è?” ed io esco dalla mia camera buia con il vestito rosso che sento che in quel momento mi sta benissimo addosso.
“Sono qua…”