Siamo nel 1895 quando Giovanni Pascoli, al matrimonio della sorella Ida, prende in affitto con un’altra sorella, Maria – detta Mariù, con la quale il poeta ebbe sempre un legame molto stretto e profondo – una casa a Castelvecchio di Barga, in Garfagnana: un luogo appartato, a diretto contatto con la campagna. Una cornice perfetta per dedicarsi a quelli che gli antichi Romani chiamavano otia letterari – nel caso di Pascoli la poesia, ovviamente, e la letteratura classica.
È in questa cornice che nascono i Canti di Castelvecchio, raccolta di poesie che recano l’anno del 1903. Considerati in genere dalla critica come una continuazione di Myricae, in una forma però più ampia e distesa, i Canti contengono alcune delle poesie più celebri di Pascoli e ruotano attorno al paesaggio della natura incontaminata di Castelevecchio, il luogo preposto dal poeta alla faticosa ricostruzione del nido familiare.
Stiamo parlando di un’opera certamente complessa, sia per la varietà dei contenuti che delle forme metriche. Per molti, la più riuscita di Pascoli. Le poesie seguono un ordine non cronologico, bensì logico, e il filo conduttore delle numerose composizioni poetiche (divise in tre grandi parti) sembra essere la ricerca di una felicità ormai perduta, che neanche la poesia – paragonata ad una lampada che illumina la vita – riesce a riconquistare. Più di tutte, la sezione di nove componimenti intitolata Il ritorno a San Mauro riporta esplicitamente ai luoghi e alle immagini dell’infanzia, quel mondo perduto che la poesia di Castelvecchio tenta appunto di far riemergere.
Il poeta pare quasi interrogare la natura, di cui riproduce fonosimbolicamente suoni e voci. Questa natura, questo immenso universo fatto di piante e animali tiene lontano il pianto e la tristezza; ma quando lo sguardo si allarga, e dal microcosmo ci si interroga invece sul cosmo, l’apparente pace viene insidiata dalle immagini della distruzione e della morte. il timbro della poesia pascoliana, evidente sia in Myricae che nei Poemetti, è evidente anche in questa raccolta: l’inquietudine dell’uomo regna sovrana.
In questo orizzonte in cui l’autore cerca invano un senso alle cose, si situano anche l’amore e il sesso, che Pascoli vive come illusioni lontane, annunciatrici di vaghe felicità, che però sono vietate alla sua diretta esperienza. Ricordiamo in particolare La figlia maggiore, Il gelsomino notturno, Il sogno della vergine: tutte poesie che alla figura femminile associano l’immagine della morte, la cui presenza è costante nella raccolta. Esemplare, nella sopracitata associazione, La tessitrice – poesia al cui centro c’è il sogno di una fanciulla morta, impegnata a tessere una tela nella quale riposerà, per sempre, insieme al poeta. E ancora La mia sera, dove la notte e la morte si confondono, e dove la culla e la tomba vengono di fatto a sovrapporsi.
È in questo convergere di realtà e di eternità, di sogno felice e di crudo disinganno, che sta il messaggio più intenso della poesia di Pascoli, il suo nucleo principale. I Canti di Castelvecchio non raggiungono forse l’intensità e soprattutto le cime artistiche dei Canti di Leopardi, a cui pure intendono rifarsi nei contenuti e nel titolo, ma rappresentano un momento fondamentale nella carriera letteraria di Giovanni Pascoli. E, di certo, avrebbero costituito un punto di riferimento essenziale per tanta poesia italiana del XX secolo.