Dovevi restare la storia della stanza 23 dell’Hotel Nettuno. Nient’altro. Una di quelle avventure che poi spariscono come gli amici infedeli. Ce lo dicemmo mentre cercavamo i nostri abiti smontando mezza camera. Le nostre energie sballottavano tra loro: quelle non potevamo riprendercele. Ci eravamo come fusi: tabacco e marjuana, acqua e sale, fuoco e aria. Tu ti davi da fare con i bottoni della camicia, io mi fumavo tranquilla la mia sigaretta, respiravo l’aria ruvida e viziosa della stanza d’albergo. Guardavo i muri, che non avevo notato fossero azzurri. E il letto, bianco ed insignificante, ospitale come una zia forzatamente gentile.
Fuori da lì ci aspettavano i nostri destini: il mio lavoro sottopagato, i tuoi studi.
Ci introducemmo in quell’hotel degradato dopo il classico, odioso ritrovo studentesco. Erano passati dieci anni da quando i nostri gomiti si incontravano tra i banchi di scuola. Io scrivevo poesie su un diario che nessuno leggeva, tu prendevi appunti, affamato di sapere, totalmente assorto nelle questioni filosofiche, nei massimi sistemi, nelle versioni di latino, negli articoli di giornale da analizzare. La scuola non era mai stata il mio forte. Ero sempre troppo impegnata a fare la ragazza controcorrente, quella che ha risposte originali a tutto, con un vago sentore di rabbia e anarchia. La classica ragazza “è brava ma non si impegna”, “non è cattiva ma disturba”, “legge molto ma non i libri di scuola”. Lottavo per i miei ideali, ma non conoscevo la storia e chi, prima di me, aveva tentato invano di fare valere i propri sogni e desideri. A te lasciavo i teoremi, le verità assolute, le incrollabili incertezze, la matematica. Scartavi la realtà dai libri di scuola e dalle parole degli insegnanti: la cultura era un regalo, e tu lo aprivi. Per me era un problema, un noioso appuntamento, una mano violenta che strappava le mie radici dal letto.
Il taccuino su cui mi piaceva annotare i miei pensieri giaceva immobile sulla scrivania. Era aperto ad una pagina a caso, solcata dal tratto pesante della mia ministilo. C’era scritta una storia che avevo cominciato mentre aspettavo che tu finissi la doccia. Pochi minuti dopo che eri uscito tenevo il corpo premuto sul tuo. Ti agitavi convulsamente. Il letto scricchiolava, il soffitto pareva mi crollasse addosso tanto ci muovevamo.
Era bello prometterci tra un sospiro e l’altro che avremmo soltanto fatto sesso, che non avremmo cercato un futuro, che volevamo solamente indietro il passato che non riuscimmo a viverci come volevamo. Attimi di estasi e vicinanza e poi basta, vento freddo e perdizione.
La passione era agli sgoccioli, scandiva il poco tempo che ci rimaneva.
Lì fuori avevo un marito che attendeva la cena, una bambina dalla carnagione evanescente che non si addormentava se non le raccontavo le favole della buonanotte. Una famiglia che un amore giovanile non avrebbe potuto bruciare. Una colazione fatta tutti insieme la mattina, un pranzo preparato con le mie mani, una pizza al ristorante cinese la domenica sera, o un kebab, dipende.
Così ci riprendemmo soltanto il tempo che dieci anni fa ci spettava, che un fidanzatino dal giubbotto di pelle mi aveva negato, portandomi con sé sulla sua moto, in mezzo ai suoi amici scalmanati e a serate alcoliche e nichiliste.
Giocavi coi miei capelli ondulati, te li legavi al dito per non dimenticare quel nostro grande capriccio. Io mi attorcigliavo su di te come un lombrico. Subdola seduttrice, donna innamorata.
Fuori si mise a piovere: un tuono ci fece sobbalzare, e poi lo scroscio della pioggia coprì delicatamente il rumore della porta della stanza 23 che si chiuse alle nostre spalle. Via, via da quell’hotel. Era ora di andare a casa, di tornare alla mia vita.
Mio marito mi aspettava davanti alla stazione: gli avevo scritto un sms frettoloso poco prima che io e te finissimo a letto insieme.
“Che ne dici di accompagnarmi fin là?”, ti domandai, e quando annuisti come davanti alla domanda più ovvia del mondo capii perché tanti anni prima mi fui innamorata di te: quelle fossette ai lati della bocca, quel sorriso, quegli occhi.
Uscimmo dall’hotel con i vestiti a casaccio, la cintura ancora da allacciare, l’impermeabile beige mal abbottonato. Le mie narici avvertivano ancora l’odore delle lenzuola, del tuo indice che poco prima avevo leccato e succhiato e cosparso su tutto il mio corpo.
Corremmo sotto la pioggia fino a che la stazione non si aprì davanti ai nostri occhi: la nostra ultima corsa d’amore.