La canonica era immersa nel silenzio. Il verde pendio sul retro della casa era una coltre buia e fredda.
La ragazza rabbrividì e ravvolse la coperta più strettamente sulla vestina da notte.
Ancora poche ore e il sole sarebbe sorto sul giorno del suo compleanno.
Riusciva quasi a vederli, il babbo e la mamma, sorpresi ma non troppo di trovarla alzata di buon mattino, pronti a darle il bacio d’augurio. Cassy avrebbe fatto un pudding o una delle sue torte fantasia. E la giornata sarebbe trascorsa così, tra una canzone al pianoforte, uno scherzo dei suoi fratelli, le faccende domestiche, il sermone di papà ancora da scrivere, la casa da preparare per i giorni di festa di là da venire. Bel giorno, il 16 dicembre, per venire al mondo. Troppo freddo per uscire e il Santo Natale alle porte.
Un tempo ideale per leggere. Finirò Gilpin. O meglio la Barney.
Ma non si era alzata per terminare l’ennesimo libro.
I quaderni reclamavano la sua attenzione.
Intinse la penna nella boccetta d’inchiostro e per un tempo indefinito – si fece giorno, il sole filtrò dalla siepe e battè alla finestra per augurarle buon giorno e buon compleanno, il reverendo Austen la vide intenta a scrivere e le carezzò la testa prima di abbracciarla – non ebbe più freddo né sonno, né riuscì a pensare al ballo di Natale o alla torta di Cassandra, alla mamma che le avrebbe rimproverato l’alzataccia.
Era a Lesley Castle, riviveva le avventure di “Love and Freindship”, palpitava per Catherine. Riandava con gli occhi e la mente ai suoi primi imparaticci e affrontava i nodi delle nuove storie.
Aveva iniziato per divertire se stessa, Charles e tutti gli Austen, e non aveva intenzione di smettere.